Cosa ci insegna l’imbecillità di massa – Lo Zibaldone di Lorenzo Borla n. 410

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(Maurizio Ferraris, Repubblica) Suscitato da un intervento di Umberto Eco, quello della imbecillità di massa si presenta come un vasto problema. Anzitutto perché si presta più di ogni altro tema alla ritorsione: chi sei tu, quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a moltitudini? Quale patente di intelligenza ti autorizza a sollevarti al di sopra del mondo? Se c’è un momento in cui una persona intelligente appare irrimediabilmente stupida è quando pretende di sollevarsi sulla massa, per esempio quando Martin Heidegger sostiene che <chi pensa in grande può anche errare in grande>, o quando Paul Valéry apre con un madornale <La stupidità non è il mio forte>. Da questo punto di vista, l’imbecillità di élite (quella per esempio che si manifesta nei “centri di eccellenza” che sono fioriti nella nostra università devastata) sembra ancora più acuta dell’imbecillità di massa. L’imbecillità di massa, però, ha dalla sua il peso della quantità. E, come diceva Hegel (altro filosofo in cui si può trovare una quantità di affermazioni stupide), <il quantitativo trapassa necessariamente nel qualitativo>.

Ognuno di noi è un portatore, più o meno sano, di imbecillità. Joseph de Maistre ha potuto scrivere un libro monumentale e magnifico, Esame della filosofia di Bacone, in cui enumerava i segni evidenti di imbecillità ravvisabili negli scritti del Lord Cancelliere, il padre della scienza moderna. A un certo punto, dopo aver osservato che nella sua Storia di Enrico VII, Bacone scrive che il re assiste alla celebrazione delle feste di Natale il 27 dicembre, de Maistre svolge una considerazione capitale: <Ci sono mille prove che spesso scriveva per pura abitudine meccanica e per esercitare le dita>. Ecco la vera origine della imbecillità collettiva. Noi non siamo affatto più imbecilli dei nostri antenati, anzi, è altamente probabile che siamo molto più intelligenti di loro. Meno mangioni (avete fatto caso a quanto si mangia nei romanzi dell’Ottocento?), meno beoni (provate a contare il numero di birre che si beve Maigret in una giornata di lavoro), più liberali e meno autoritari o inclini al fanatismo (i roghi delle streghe non sono più prassi corrente), mediamente più istruiti e alfabetizzati. Ma è proprio qui il problema.

Oggi l’imbecillità è, per così dire, molto più documentata e diffusa, perché quello che un tempo era la prerogativa di Bacone, scrivere per esercitare le dita, è diventata la più diffusa delle consuetudini. Non ci sono vite che passano senza lasciar tracce. E fra le tracce non ci sono fondi di cassetto, appunti, scartafacci. Tutto è pubblicato, letteralmente, alla velocità della luce. A questo punto, apparirà ovvio che l’imbecillità, che costituisce il basso continuo dell’umano, proprio come l’intelligenza ne è la punta emersa e sporadica, venga alla ribalta con una evidenza mai sperimentata in precedenza.

Del 10 giugno 1940 ci rimane il testo, espressione di imbecillità di élite, di Mussolini, che si spinge sino a precisare che dichiara guerra a Francia e Inghilterra ma non alla Svizzera o alla Turchia, e l’immagine dell’imbecillità di massa della folla plaudente ed esaltata. Oggi avremmo milioni di post e di tweet, variazioni del discorso dell’imbecille di élite, magari aggravate dal fatto che, per quanto imbecille, Mussolini lo era molto meno di tanti altri accorsi in Piazza Venezia. Questa circostanza, per assurdo che possa sembrare, ha un versante positivo, su cui vorrei portare conclusivamente l’attenzione.

L’imbecillità iper-documentata rende radicalmente impossibile farsi illusioni sul genere umano, e concretamente su ognuno di noi. Illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, appunto perché muovevano dall’assunto che l’umanità fosse meglio di quella che è. Ciò che un tempo era riservato a pochi, che si chiudevano in stanza la notte a leggere Tito Livio per conoscere le debolezze umane, oggi è disponibile, direbbe il filosofo Byung-Chul Han, <tra il pollice e l’indice>, e insegna da solo più di Montaigne e di Spinoza. Ed è per questo che, venuto meno il sogno della intelligenza collettiva con cui si era salutato l’avvento del digitale, conviene giocarsi la carta della imbecillità di massa come fonte di insegnamento e di ammonimento.

Considerazioni sulla Magna Grecia

(Giuseppe Galasso, Corriere) Tra le conseguenze del lieto fine (sperabile) della questione greca, ci sarà indubbiamente quella per cui cesserà la vera e propria ebbrezza di erudizione e di retorica, fiorita intorno alle attuali vicende ateniesi. Un’ebbrezza per cui si è ricordato di tutto e di più. Si è evocata una sovrabbondante galleria dei grandi protagonisti ed eroi della storia dell’antica Ellade, da Temistocle a Pericle. Sorprende che non si sia fatta parola, se non ci inganniamo, di Alessandro Magno. E non parliamo dell’esaltazione del ruolo, certamente, a dir poco fondamentale e fondativo dei Greci nella storia mediterranea ed europea (non parliamo, poi, dell’Italia). Il fatto è, però, che nelle questioni di cui oggi si è trattato e si tratta fra Grecia e Unione Europea non c’entra niente la Grecia di Pericle, patria della democrazia e di tanta parte della civiltà europea. La Grecia di oggi ha in comune con quella solo la lingua e l’alfabeto. La Grecia di oggi è figlia, invece, di una decina di secoli bizantini e di quattro o cinque secoli di regime ottomano. È figlia di quasi due secoli, ormai, di un’indipendenza tumultuosa, fra guerre esterne e guerre civili, colpi di Stato e regimi militari, con incerte e spesso non molto lunghe parentesi liberaldemocratiche, secondo un tipico modulo di democrazia mediterranea, che dovrebbe servire da ammonimento a tanti sciocchi discorsi sulle cose di casa nostra.

Due secoli, anche, di belle prove e di felici pagine di un “grande piccolo popolo” (moderno, non antico), che ha fatto sempre parlare di sé anche per la sua inesauribile tenacia. Due secoli che hanno consentito a un Paese ridotto agli inizi del secolo XIX in condizioni semplicemente miserande di reimmettersi, a poco a poco, nel circolo della vita europea e di recitarvi una sua apprezzabile parte, ma sempre alternando pagine di grande livello, come nella guerra presuntuosamente mossa ad esso dall’Itala nell’ottobre 1940, a pagine di altro stile, come negli anni del regime dittatoriale dei colonnelli trent’anni dopo. È di questo Paese che ora si tratta, e per capirlo, come i greci hanno il diritto che gli altri facciano, ma anche per vederlo nella sua effettiva realtà, non serve a nulla evocare Pericle o Solone. Serve piuttosto riflettere sull’agitata storia delle democrazie mediterranee, nelle quali la stabilità politica e la lunga durata dei regimi di libertà sono eccezioni in un contesto di diverso segno, quasi che il peso di un passato millenario, conforme a quel segno diverso, prolunghi ineluttabilmente i suoi effetti malefici.

Tra le eccezioni rientra l’Italia dal 1860 al 1922 e, ancora meglio e di più, dal 1945 a oggi. E ciò ci fa capire che cosa intendessero i primi fautori, in Italia, dell’adesione alla Comunità Europea, mossi, come erano, da un forte sentimento e un’idea europeistica, ma anche dalla convinzione esplicitamente espressa che dal partecipare alla fondazione e alla vita politica e civile di un’Europa unita nel segno della libertà e della democrazia l’Italia avrebbe ricavato la sicurezza di non incorrere in destini di altro stampo (e che cosa intendesse, a sua volta, Giustino Fortunato — meridionalissimo, e appassionato conoscitore della storia e della realtà del Mezzogiorno — quando affermava che l’unità italiana aveva legato il suo amatissimo Paese all’Europa, sottraendolo al sempre incombente rischio di una sorte legata, invece, ai destini ricorrenti dei Paesi che con esso si affacciano sullo stesso mare).

Il signor “Mi rifiuto”

(Massimo Gramellini, La Stampa) La proposta di cominciare la bonifica di Roma dal marciapiede davanti a casa propria, avanzata dall’attore Alessandro Gassmann, sta facendo emergere per contrasto un altro tipo di italiano. Il signor “Mi Rifiuto”, figura trasversale che va dai commentatori dei giornali di destra all’archetipo dell’intellettuale di sinistra, il professor Alberto Asor Rosa. La sua tesi è che il cittadino non deve sostituirsi ai netturbini perché ‘già paga le tasse. Questo richiamo al ruolo virtuoso delle imposte nel Paese che vanta il maggior numero di evasori fiscali suona vagamente surreale. Ma pur di non prendere in mano una ramazza e sentire la città come cosa – e casa – sua, il signor “Mi Rifiuto” è pronto a sciorinare tutto il repertorio dello scaricabarile. Ironizza sul fatto che Gassmann abbia lanciato il suo appello dal Sudamerica, dove sta lavorando, anziché precipitarsi qui con guanti e paletta. E sposta l’attenzione sugli stranieri che sporcano la città, fingendo di non sapere che l’essere umano si adegua al panorama circostante e che, come a nessun italiano verrebbe in mente di straziare di cartacce un immacolato parco londinese, così è comprensibile che un inglese non si senta m colpa se imbratta una piazza di Spagna già ridotta a ciofeca. Le obiezioni del signor Mi Rifiuto, formalmente ineccepibili, sono alibi per continuare a rimanere come siamo: inerti e lamentosi, ignorando l’effetto contagioso dell’esempio. Chi contribuisce in prima persona diventa più geloso del bene comune e più esigente verso gli amministratori. <Pulisci davanti all’uscio di casa e tutta la città sarà pulita>, recita un proverbio cinese o forse scandinavo. Sicuramente non italiano.

Il caso Crocetta

(Livio Ghersi, criticaliberale.it) Qui in Sicilia abbiamo la nostra croce: si chiama Rosario Crocetta. Dire male di lui è facile, come sparare sulla Croce Rossa. C’è solo l’imbarazzo della scelta degli argomenti. E’ francamente imbarazzante, ad esempio, sentirlo parlare dei conti pubblici della Regione; lo fa sempre in modo approssimativo, sempre senza dati e riferimenti precisi, sempre facendo un gran confusione fra milioni e miliardi, come se si trattasse di noccioline. Ma non abbiamo intenzione di infierire contro quello che, con tutta evidenza, è un caso umano.

Soltanto ricordare qualche passaggio. Il personaggio Crocetta fu inventato come strumento di un non meglio precisato “governo dell’antimafia”. Formula che di per sé la dice lunga sulle miserabili condizioni politiche in cui versa la Sicilia. Proprio al fine di arrivare al “governo dell’antimafia” fu eliminato un concorrente che poteva fare ombra a Crocetta, in quanto dotato di una credibile storia personale. Facciamo riferimento a Claudio Fava. Ricordate? Nel mese di settembre del 2012 la candidatura di Fava alla carica di presidente della Regione fu annullata, perché egli non aveva trasferito in tempo la propria residenza in un comune siciliano.

Poiché condividiamo, nel bene e nel male, il destino dei siciliani, per noi è magra consolazione non avere la responsabilità di aver votato per Crocetta. Non lo votammo perché, anche nel 2012, lo consideravamo soltanto “un trombone”, un demagogo da quattro soldi. L’emblema del megafono, scelto dalla lista Crocetta, si è rivelato perfetto, considerate le caratteristiche del leader. C’era una sensibilità, come dire, estetica, oltre che un giudizio di merito politico, che allora come oggi ci faceva vedere l’inopportunità che uno come Crocetta ricoprisse una responsabilità così importante qual è quella di presidente della Regione siciliana.

Non ci interessano le presunte rivelazioni di un settimanale. Le frasi scaturite dalla presunta intercettazione telefonica sono gravi, ma cambierebbe poco se fossero state falsificate. Diamo per scontato che Crocetta non abbia proprio la colpa che oggi gli si imputa ed assumiamo, anzi, che egli sia sinceramente affezionato alla memoria di Paolo Borsellino. Del resto, proprio perché era consapevole del valore di quella memoria ed intendeva strumentalizzarla ai propri fini, ha voluto che la figlia di Borsellino, dipendente regionale come ce ne sono tanti, entrasse a far parte della Giunta regionale, alla guida di un Assessorato importante e delicato.

Dal nostro punto di vista, Crocetta deve lasciare la sua carica per quello che egli è, per la sua azione di governo, per il poco che ha fatto (male) e per il tanto che avrebbe potuto fare e non ha fatto. Prima se ne va e meglio è. Resta la strana vicenda di una carica, quella di presidente della Regione siciliana, che non ha avuto pace da quando è stata introdotta l’elezione a suffragio universale diretto. I precedenti sono quelli di Salvatore Cuffaro e di Raffaele Lombardo. Viene quasi la nostalgia di presidenti eletti dall’Assemblea regionale, quando ancora c’era una forma di governo parlamentare.

Le trappole dell’uguaglianza

(Danilo Taino, Corriere) Cari amici liberali, c’è un racconto che, di questi tempi, illumina e allo stesso tempo fa disperare. Ci ricorda che la vostra (dei liberali) capacità di produrre idee spesso è inversamente proporzionale alla capacità di raccogliere voti. Riguarda la disuguaglianza, tema che ha preso il centro del discorso politico in tutto l’Occidente dopo la Grande Crisi, e che i sostenitori del libero mercato (e in fondo del capitalismo), non sanno affrontare. Il racconto è una simulazione sentita fare a decine di liberali. Immaginiamo una società divisa in due classi, uguali per popolazione. Chi fa parte della metà povera guadagna 15 mila euro l’anno, chi fa parte del 50% ricco ne guadagna 150 mila. L’economia va bene e quindi dopo qualche anno i redditi migliorano per tutti. Quello della metà povera triplica, a 45 mila euro. Quello dei ricchi, quadruplica, a 600 mila euro. Si tratta di decidere se lo sviluppo è positivo, perché i poveri sono meno poveri; oppure se è negativo, perché la disuguaglianza è cresciuta da un rapporto di dieci a uno a un rapporto di oltre tredici a uno. I liberali scelgono il primo caso.

L’esempio continua a rovescio. Immaginate che la stessa società entri invece in una fase di depressione economica e di caduta dei mercati finanziari. I poveri vedono crollare il loro reddito del 50%, a 7.500 euro, i ricchi del 90%, a 15 mila euro. La disuguaglianza è stata ridotta da un rapporto di dieci a uno a un rapporto di due a uno. È positivo o è negativo? I liberali rispondono che è negativo. Orbene, la simulazione è illuminante. Spiega che seguire la sirena della contrapposizione uguaglianza/disuguaglianza porta su strade che vanno verso il nulla; con alte probabilità di fallimento, come suggeriscono le esperienze delle società che hanno detto di volerlo fare. Allo stesso tempo, però, fa disperare perché è inutile. Per quanto sia razionale, non convince e non scalda i cuori dei poveri, che dovrebbero essere quelli che più l’apprezzano. Ciò non dipende solo dallo scarto che c’è tra la razionalità e la percezione politica. Dipende dal fatto che questo approccio didattico elude alcune questioni che i liberali non affrontano con abbastanza coraggio.

In particolare non affrontano il cattivo funzionamento del capitalismo oggi. Vero che il capitalismo e la democrazia hanno sempre dato prova di sapersi riformare. Ma ciò non può bastare. Sulla scena del mondo ci sono modelli che si richiamano al capitalismo, ma sono intrisi di ingiustizia, di privilegi, di corruzione. Per esempio quelli cinese e russo. Ma non molto meglio è il “capitalismo di relazione” fondato sull’intreccio tra il capitale dello Stato e quello dei privati privilegiati dai rapporti politici, vivo e vegeto, anche se non sempre dominante, in America e in Europa. Questi sono tempi duri, amici liberali. Lo statalismo e l’autoritarismo, in forme vecchie e nuove, hanno ripreso la marcia. Ammirati e copiati anche in Occidente da élite che approfittano della ricchezza e delle relazioni di potere per tenere a distanza i concorrenti più capaci e innovativi e, in generale, per negare quello che una volta si chiamava, almeno in America, il capitalismo popolare, capace di nutrire il grande sogno.

La Grande Crisi ha portato nelle opinioni pubbliche dell’Occidente una critica profonda del capitalismo. E al centro di essa c’è il tema della disuguaglianza. Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty è diventato il manifesto della negazione del ciclo aperto negli anni Ottanta da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Il coefficiente di Gini, un modo per misurare le disuguaglianze, si è trasformato in una formula magica per capire il mondo. Ma la risposta dei liberali è inadeguata. Di base, è difficile sostenere che il capitalismo abbia accresciuto la disuguaglianza. L’anno scorso, uno degli economisti americani più apprezzati, Larry Summers (ex ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton) sostenne che <gli Stati Uniti possono facilmente essere sulla strada di diventare una Downton Abbey economy>. L’immagine è ideologicamente attraente. Al tempo stesso nessuno può seriamente paragonare le disuguaglianze di oggi a quelle di un secolo fa. Le differenze di patrimonio sono ancora alte. Come quelle di reddito. Ma nel frattempo sono nati i servizi sanitari. L’istruzione si è allargata a dismisura. Gli avanzamenti tecnologici hanno distrutto diseguaglianze in misura impensabile: il telefono, la televisione, internet, le automobili mettono tutti sullo stesso piano. Banalmente, il prêt-à-porter è stato un livellatore sociale portentoso. Lo stesso l’acqua corrente e il bagno in casa. Non entrano nelle statistiche di Piketty, ma l’innovazione sociale – nelle democrazie – e l’innovazione tecnologica sono forze egualitarie che hanno rivoluzionato il mondo e distrutto Downton Abbey.

Certo, l’1% della popolazione più ricca che non arriva a fare parte dello 0,1% non può permettersi lo yacht, deve affittare l’aereo privato invece che tenerne uno pronto sulla pista. E gran parte del restante 99% deve scegliere un volo low-cost per andare in vacanza: ma, a differenza di qualche decennio fa, ci va. C’è una dose di ideologia dietro le teorie sull’ingiustizia della disuguaglianza. Ciò nonostante, la questione è diventata una narrazione politica potente. I liberali non possono fare finta di non accorgersene. Se vogliono continuare ad avere un ruolo incisivo, devono entrare nel dibattito in una posizione non difensiva, evitando di spingere il problema sotto il tappeto. Diversamente, lasceranno il campo a politiche che affrontano la questione con soluzioni deleterie, come la tassa globale a fini di ridistribuzione statale dei redditi proposta da Piketty; o i limiti di legge sui redditi delle persone.

È, amici liberali, che le dimensioni della disuguaglianza non sono solo quelle che si misurano in termini di ricchezza, non necessariamente negative. Ci sono anche gli effetti (almeno due importanti) di queste differenze. Uno riguarda il fatto che il patrimonio e l’alto reddito danno accesso a opportunità e potere politico, dai quali è escluso chi ne è privo. L’1% più ricco ha aperta la strada (per i figli) che porta alle università considerate migliori, quelle che a loro volta offrono maggiori opportunità nella vita. E l’istruzione è il veicolo più forte di mobilità sociale: se viene lottizzata o chiusa, diventa uno strumento di ingiustizia. Lo stesso 1% ha accesso diretto o quasi diretto al potere politico, con i privilegi che ciò comporta. Ancora: chi sta ai vertici della piramide della ricchezza quasi sempre è anche al vertice del sistema di governance delle imprese, con intrecci tra i suoi membri che garantiscono retribuzioni incrociate a presidenti e ad amministratori delegati che in numerosi casi vanno al di là della loro capacità di creare ricchezza. Sono le nuove aristocrazie, in questo senso non troppo diverse da Downton Abbey.

Il secondo effetto importante, che richiede risposte liberali, è la possibilità che, come alcuni sostengono, la disuguaglianza eccessiva sia un vincolo per la crescita economica e limiti la prosperità potenziale generale. Il Fondo monetario internazionale nei giorni scorsi ha calcolato che l’aumento dell’1% della quota di reddito accaparrata dal 20% più ricco della popolazione riduce la crescita economica dello 0,08% nel giro di cinque anni. I canali attraverso cui ciò avverrebbe possono essere diversi: chi è in basso nella scala del reddito ha maggiori difficoltà ad accedere a una buona sanità o a una buona scuola; tende a indebitarsi di più; chiede politiche di sostegno che in genere vengono mal disegnate dai governi. Oppure, come sostengono Summers e altri, un euro in più a un povero verrà speso e farà crescere l’economia, un euro in più a un ricco finirà sotto il materasso. È un terreno nel quale sarebbe più corretto parlare di povertà invece che di disuguaglianza, dal momento che non sono affatto la stessa cosa. Di certo, però, le differenze sociali hanno conquistato il centro del discorso politico in Occidente.

Le lezioni inascoltate della storia

(Ernesto Galli della Loggia, Corriere) Quando nel novembre del 1989 crollò il Muro di Berlino si chiuse l’era iniziata con la Rivoluzione del 1917, molti in giro per il mondo si scrollarono di dosso i calcinacci di quel muro e fecero buon viso a cattivo gioco. Ma evitarono anche di scavare alla ricerca delle ragioni di un così grandioso fallimento. Quasi nessuno scelse di riflettere seriamente sul passato, pochi, fra i molti che da quella utopia erano stati ammaliati e in cui avevano creduto si posero pubblicamente il problema del come e del perché; pochi decisero di fare i conti con i propri trascorsi errori di giudizio. I più evitarono così di assimilare la principale lezione: si era dimostrata falsa senza rimedio l’idea che, sempre e comunque, il mercato sia il problema e lo Stato la soluzione. La falsità di quella tesi è all’origine del fallimento del comunismo. Non volendo prenderne atto, molti si raccontarono favole e, anziché al nucleo duro della dottrina, attribuirono il fallimento a fatti contingenti, come la presa del potere da parte di criminali quali Stalin, Pol Pot, eccetera.

Ma l’errore, invece, stava proprio nella dottrina. Economisti quali Luigi Einaudi, che scrissero sul mercato e sull’economia collettivista, o il grande dibattito degli anni Venti/Trenta fra economisti austriaci, avevano messo in luce l’impossibilità della pianificazione socialista. Questi studiosi sapevano benissimo perché le ricette collettiviste fossero economicamente disastrose. E sapevano anche perché fossero nemiche delle libertà civili e politiche. Era, in età pre-televisiva e pre-Internet, la domanda retorica nota a tutti gli economisti occidentali: se le cartiere appartengono allo Stato come è possibile la libertà di stampa?

Era chiaro già allora (a chi avesse il desiderio di capire) quali fossero le cause ultime dell’abbaglio comunista su Stato e mercato: un errore antropologico, una concezione sbagliata, semplicistica, della natura degli esseri umani, unito all’illusione prometeica, alla presunzione di poter forgiare, attraverso lo Stato, l’uomo nuovo. Erano insomma a disposizione di chiunque volesse usufruirne le argomentazioni in grado di spiegare perché l’applicazione di quella dottrina dovesse necessariamente sfociare nel totalitarismo politico e nel disastro economico. Ma neppure dopo la fine della Guerra fredda, molti di coloro che in precedenza avevano rifiutato con sdegno quelle argomentazioni in quanto <reazionarie e di destra> si fermarono a rifare i conti, a prendere atto dei propri errori.

Ecco perché, come se niente fosse, gli stessi o i loro discendenti ripropongono oggi ricette fallimentari. Quando si dice che l’economia capitalista danneggia i poveri e va quindi corretta con dosi massicce di collettivismo, non solo si parte da una falsa premessa (è dimostrato che l’economia di mercato migliora la condizione dei poveri assai più di quanto non sia in grado di fare il collettivismo) ma si invocano anche pessimi rimedi: le stesse stolte politiche, grosso modo, per mesi e mesi accarezzate da quei sessantottini in ritardo che componevano il governo Tsipras, quelli che, sulla pelle dei loro concittadini, giocavano alla Rivoluzione con i soldi degli altri.

Reasons not to match wits with children

> A little girl was talking to her teacher about whales. The teacher said it was physically impossible for a whale to swallow a human because, even though it was a very large mammal, its throat was very small. The little girl stated that Jonah was swallowed by a whale. Irritated, the teacher reiterated that a whale could not swallow a human; it was physically impossible. The little girl said, ‘When I get to heaven I will ask Jonah’. The teacher asked, ‘What if Jonah went to hell?’ The little girl replied, ‘Then you ask him’.

> A Kindergarten teacher was observing her classroom of children while they were drawing. She would occasionally walk around to see each child’s work. As she got to one little girl who was working diligently, she asked what the drawing was. The girl replied, ‘I’m drawing God.’ The teacher paused and said, ‘But no one knows what God looks like.’ Without missing a beat, the girl replied, ‘They will in a minute.’

> A Sunday school teacher was discussing the Ten Commandments with her five and six year olds. After explaining the commandment to ‘honour’ thy Father and thy Mother, she asked, ‘Is there a commandment that teaches us how to treat our brothers and sisters?’ From the back, one little boy answered, ‘Thou shall not kill.’

> One day a little girl was sitting and watching her mother do the dishes at the kitchen sink. She suddenly noticed that her mother had several strands of white hair sticking out in contrast on her brunette head. She looked at her mother and inquisitively asked, ‘Why are some of your hairs white, Mum?’ Her mother replied ‘Well, every time that you do something wrong and make me cry or unhappy, one of my hairs turns white’. The little girl thought about this revelation for a while and then said, ‘Mummy, how come all of grandma’s hairs are white?’

> The children were lined up in the cafeteria of a Catholic elementary school for lunch. At the head of the table was a large pile of apples. The nun made a note, and posted on the apple tray: ‘Take only one. God is watching.’ Moving further along the lunch line, someone had written another note, ‘Take all you want. God is watching the apples…’

Citazione

Secondo il Fondo monetario, l’Italia uscirà dalla recessione quando Renzi avrà 60 anni (Jena)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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