Marò

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di GIORGIO LUNELLI

Chissà quali territori sta ora sorvolando Richard Ashby. Forse le montagne afghane, forse le pianure paludose di qualche Stato del sud dove i piloti si addestrano e si preparano alla guerra. Del resto, lui, capitano dei Marines, era un esperto di voli su terreni accidentati, a bassa quota e ad alta velocità. Lo dimostrava a se stesso e agli altri, scommettendo barilotti di birra. Peccato che la sua carriera sia stata rovinata sul più bello da una funivia che attraversava la valle.

Se si fa una ricerca su internet, nelle pagine americane, del capitano Ashby si trova davvero poco. Su Google, quasi tutti i richiami sono riservati ad un altro Richard Ashby, omonimo e grande giocatore di poker.

A volte la casualità è davvero beffarda.

Del resto, dopo la sentenza della corte marziale dei Marines, il capitano Ashby può ora godere di un anonimato che gli ha consentito – probabilmente – di tornare alla pienezza della sua attività.

Lo ricordo, il capitano dei Marines, passeggiare tra i corridoi del tribunale di Trento. Camminava per lo più ad occhi bassi, evitando di incrociare lo sguardo di chi lo stava aspettando. Solo una volta si lasciò andare a qualche battuta con il suo compagno di equipaggio e di avventura: un sorriso che venne subito cancellato dall’obbligo di rispettare un copione già scritto: serietà e serenità, perché a Trento non ci sarebbe stato alcun processo. Quello era competenza degli Stati Uniti, della corte marziale dei Marines. E così avvenne.

Per i militari che operano all’estero, esistono regole ben precise. La competenza di giudizio spetta allo Stato di appartenenza. Giusto o sbagliato che sia.

Tra le forze armate che fanno della Nato, esiste addirittura una convenzione – quella di Londra, del 1951 – che chiarisce ogni dubbio. Ecco perché il capitano Ashby è stato processato negli stati Uniti. La stessa cosa è accaduta – sul versante italiano – per le ipotesi di comportamento colposo a seguito dell’incidente di Ramstain (agosto 1988) dove una tragica collisione tra aerei delle Frecce Tricolori provocò la morte di oltre cinquanta persone. Un incidente che in Germania continua ad alimentare dubbi di sabotaggio posto che due dei tre piloti che persero la vita erano importanti testimoni nella intricata vicenda di Ustica.

Le regole, in questo campo, sono tutto. E fuori dalle regole, tutto appartiene ai rapporti di forza. Tutto questo rende complicata la vicenda dei militari italiani arrestati in India: i due “marò” erano a bordo di una nave con bandiera italiana (e dunque erano in uno “spazio nazionale”) ed avevano agito in acque internazionali.

L’errore è stato quello di aver consegnato i due militari italiani alle autorità indiane. Ora, se non c’è il rispetto delle regole internazionali, tutto viene determinato dal braccio di ferro tra le diplomazie. un brutto affare, per tutti.

Ma forse è proprio questo che l’India vuol far sapere: non siamo più un grande Paese del “Terzo mondo”, ma siamo una “nuova potenza”: economica e militare. Già perché l’India è l’emblema di un mondo dove stanno cambiando i rapporti di forza. Ciò che sino a pochi anni fa era ritenuto impossibile (un Paese asiatico che si contrappone all’Europa), oggi è condizione di cui bisogna tener conto. Altri Paesi stanno conquistando la guida della globalizzazione. E agiscono di conseguenza.

La Cina, detenendo una buona parte dei titoli del debito americano, può permettersi di contestare le scelte economiche di Obama; la Russia, ex superpotenza militare, ha le chiavi dei rubinetti del metano: li può chiudere e gli europei rimarrebbero al freddo; il Brasile rivendica il proprio ruolo nel mondo (e se ne fa un baffo delle proteste italiane per la mancata consegna del terrorista Battisti); l’India, a partire dalla questione dei “marò”, sfida l’Europa e non si preoccupa delle possibili conseguenze. Anzi, è convinta di aver il coltello della parte del manico.

Già. Il mondo è cambiato, forse non ce ne siamo del tutto resi conto.

In Note di Viaggio

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