Il filo d’Arianna della politica di difesa francese

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di Fabiana Galassi

Il rientro della Francia nella sfera militare della Nato è, da sola, una non notizia. Lo strappo voluto da De Gaulle nel 1966, fu controllato e funzionale allo scopo dell’affermazione francese di una propria politica di potenza, svincolata dall’influenza statunitense e britannica, nel tentativo di diventare il referente di una politica di difesa tutta europea. L’idea di costituire un contraltare al monopolio statunitense nella Nato, al di qua del Muro, serviva alla Francia per la propria politica di puissance, disancorata dai giochi di potere, subìti da altri paesi dell’Organizzazione Atlantica e di presentarsi, per questo, ai partner europei come il faro per l’affermazione di un’idea di Europa forte e autonoma.

Tuttavia, la Francia non uscì mai completamente dall’Organizzazione e conservò il suo posto nella struttura politica dell’Alleanza per poter influenzare le decisioni al massimo livello strategico per poi ritornare nell’alveo del Military Committe, nel 1994, e rafforzare la sua voce a livello tattico-operativo. In più, il sostegno della Francia alle missioni Nato e il suo investimenti di uomini e di finanziamenti completano un quadro di partecipazione mai interrotta. La Francia ha, infatti, un enorme peso come contributor economico, con i suoi 32.200 milioni di euro è il terzo finanziatore della Nato per un impiego di 360 mila unità. Quest’intervento, ha portato la Francia a sostenere la costituzione dal 2002 al 2006 della NRF, forze one call per le moderne operazioni dall’initial entry all’evacuazione e a dispiegare le sue forze in Libano con 1.700 uomini per Unifil e in Costa d’Avorio con 3.600 unità per la missione Licorne.

Il suo ruolo cruciale, ha premiato la Francia con il Comando della NRF e del Transformation Command di Norfolk Il monito di Sarkozy non è caduto nel vuoto e la Francia ha riavuto il suo posto perchè le è stato dato un posto.

I festeggiamenti, quindi, riguardano l’ufficializzazione del completo riavvicinamento francese alla Nato, nell’anniversario della sua istituzionalizzazione in occasione del summit tenuto il 3 e 4 aprile scorso, a Strasburgo e Khel. La decisione di Sarkozy, non deve essere interpretata come un cambio di rotta, quindi, perchè si stabilisce in una linea di continuità nella politica estera e di difesa francese, basata sul principio sintetizzato dallo slogan “allied but not aligned”.

Il cambio di rotta nel rapporto deve essere rintracciato, invece, nella decisione di operare nei cambiamenti strategici e operativi dell’Organizzazione dall’interno, per razionalizzare una partecipazione sostanziale e per confermare il proprio ruolo in luce del nuovo scenario internazionale, multilaterale da un punto di vista politico e pronto alla chiamata, da un punto di vista militare. Le accuse a Sarkozy, quindi, di consegnare la difesa europea agli Stati Uniti dimenticano i risultati francesi nell’acquisizione di un’autonomia nella difesa e di presentarsi agli Stati Uniti come alleato forte.

Inoltre, questa decisione non mette in un cassetto la difesa europea, ma ne sancisce l’inscindibilità dall’unica organizzazione militare che ha effettivamente tenuto dopo la fine della Guerra Fredda, in un periodo privo di chiavi di lettura per la transizione perchè ha saputo presentarsi alle nuove sfide, rinnovata e più forte.

Questo non deve scoraggiare i paesi dell’Unione europea, portandoli a una quieta accettazione delle 3D della Albright – no alla duplicazione delle strutture politico-decisionali sull’impiego delle truppe, no alla discriminazione dei paesi Nato che non orbitano nell’Unione, no alla disgiunzione della visione della difesa europea da quella occidentale nel suo insieme – ma deve costituire uno stimolo per l’edificazione di quella difesa europea che gli Stati Uniti stessi reclamano e mai realizzata per l’inesistenza dell’industria militare comunitaria, per la mancanza di accordi politico-strategici a livello europeo.

La posizione statunitense in merito alla Pesd, è stata effettivamente schizofrenica; da un lato s’incoraggiava l’Unione a dotarsi di forze proprie, nella consapevole impossibilità di far fronte da parte statunitense a tutti i focolai di tensioni che dopo la Guerra Fredda si erano accesi e dall’altro si scherniva l’assunzione di una soggettività politica, fondamentale per un’organica politica militare.

La posizione della nuova amministrazione statunitense sembra mutata e più vicina alla sensibilità europea nella visione delle prospettive internazionali, pur con mille diversità come ad esempio, sulla diversa interpretazione del ruolo turco o della richiesta caduta nel vuoto di un maggior impegno europeo in Afghanistan.

Tra le pieghe di queste nuove aperture si deve agire, senza dimenticare le diversità portando dei risultati concreti.

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