Ogni serbo è Radovan

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 di Fabiana Galassi

Questa scritta su un volantino può essere derubricata a mero estremismo? Questa posizione ha alimentato il nazionalismo primitivo, cifra distintiva della storia balcanica degli ultimi decenni. Un processo, oggi, può lenire tutte le ferite da esso generate?

Radovan Karadzic è stato arrestato. Dopo tredici anni di tentativi falliti, la congiuntura della politica interna serba e un tempestivo cambio ai vertici dei servizi segreti hanno reso possibile l’imprevedibile. Questo coup de théatre – la chiusura del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2010, non permetterà il pieno svolgimento del processo, il quale si concluderà, probabilmente, senza una sentenza definitiva – serve la causa europeista di Tadic. Dopo la crisi kosovara, l’arresto dimostra all’Unione Europea la credibilità degli sforzi serbi per consolidare l’impianto democratico del Paese – criterio standard per l’agognata adesione, promessa nel 2014.

Karadzic continua, quindi, a dividere l’opinione pubblica del suo Paese. La sua creazione della Repubblica Srpska, consegnava ai serbo bosniaci, un’appagante realtà che non esisteva. Non esisteva un’omogeneità etnica nelle zone serbe di Bosnia-Erzegovina; fu creata con la deportazione, i campi di concentramento e l’uccisione dei bosniaci; non esisteva una Comunità internazionale in grado di fermare stupri, uccisioni e torture, i politici serbi lo capirono e se ne avvantaggiarono.

L’interpretazione di un sogno, la Grande Serbia, trovò sostenitori non solo tra i politici di Belgrado – la mente – non solo nei paramilitari – il braccio – ma negli individui, vittime e carnefici, allo stesso tempo. Questa non è un’attenuante, ma serve per comprendere atti politici spesso affidati al caso, all’uomo di turno, maturati, invece, lentamente in un popolo e realizzati solo perchè si trova un corpo che le sostiene. Karadzic fu quel corpo. Solo dopo la spallata storica di Milosevic-Karadzic-Mladic, Dodic, oggi, può avanzare la richiesta di un referendum per l’indipendenza della Repubblica Srpska, dopo aver aspettato i due referendum kosovaro e montenegrino e dopo aver compiuto sforzi per la riforma della polizia, così come richiesto negli Accordi di Dayton, prodotto della diplomazia per congelare una situazione di fatto, fonte per questo d’irrisolti problemi.

La tragedia umanitaria nell’ex Jugoslavia, quindi, ebbe come responsabile la dirigenza politica serba, ma al tempo stesso, la Comunità internazionale – nello specifico le entità politiche, l’Onu, la Csce d’allora e la Comunità Europea del tempo – fu timida nell’applicazione dello strumento delle peace operations.

Il contingente olandese assegnato alla zona, avrebbe dovuto vigilare sul cessate il fuoco delle forze serbo-bosniache, smilitarizzando l’area per una sicurezza controllata; in pratica, ciò che viene deciso nei consessi internazionali non trova traduzione sul campo. I soldati non vengono armati in maniera adeguata, nel convincimento che nelle missioni di pace, le forze militari devono solo occuparsi d’interposizione e di monitoraggio per il timore di violare la volontà dello Stato, teatro della missione stessa.

In questo modo, paramilitari e forze regolari del neonato Stato serbo di Bosnia, avranno gioco facile nell’occupare le zone e, con il pretesto di ricercare criminali di guerra, compiere violazioni nel loro Stato, senza la possibilità giuridica del contingente internazionale d’agire.

Per questo motivo, un atto d’eroismo dei militari occidentali non avrebbe potuto bilanciare la fumosità delle regole d’ingaggio e l’inazione politica della Comunità internazionale. Non è possibile chiedere ai militari il rispetto delle regole poste dalla sfera politica e al tempo stesso una maggior audacia e flessibilità per violare le regole stesse, se presentano dei limiti.

Uno Stato ha diritto di violare un diritto internazionale umanitario nei propri confini, avvalendosi della propria sovrana statuità? La Comunità internazionale diventerà un giorno un soggetto identificabile, affinchè la responsabilità della propria azione sia agita e riconoscibile? L’opinione pubblica si sveglierà dal torpore che porta la sfera politica a utilizzare parole come bandiere per confondere le azioni militari, travestendole da azioni umanitarie?

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