Andrea Olivero: «La politica ascolti di più il Terzo Settore»

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di ROSALINDA CAPPELLO

Immigrazione, educazione e cultura, sicurezza e welfare, economia e lavoro sono alcuni dei territori su cui si muove il Terzo Settore attraverso le sue associazioni e strutture che ogni giorno operano nella società italiana. Con Andrea Olivero, portavoce del Forum su welfare, immigrazione ed etica pubblica, abbiamo approfondito alcuni temi tracciati nel Libro Verde del Terzo Settore.

Quali sono le nuove sfide per un’Italia che voglia investire sul proprio futuro?
La prima questione che solleviamo è che il paese non sia miope rispetto alla realtà che rappresentiamo e che non dimentichi nessuna delle risorse che ha a disposizione. In questi anni ci siamo resi conto che troppe volte il Terzo Settore – tutto ciò che è società civile – non ha ricevuto un’adeguata considerazione e valorizzazione e questo ha rischiato di frenarne lo sviluppo e di limitarne le potenzialità. Un paese che vuole essere plurale deve tener conto che esistono realtà come la nostra che continuano a scommettere sul paese stesso. Non si può non considerare che c’è un’Italia che va, un’Italia basata su un’azione volontaria, su una diversa imprenditoria sociale, su un modello di costruzione di coesione sociale che si sta impegnando e che in questi anni non è entrata in crisi, anche se ha subito i contraccolpi della crisi esterna.

Dal vostro osservatorio, in quali ambiti l’azione appare più urgente?
Tra le grandi questioni che vediamo operando nel sociale e che meriterebbero di essere considerate con occhi diversi e con investimenti diversi c’è per esempio il welfare, che ancora oggi ha connotati risarcitori e assistenziali. Invece, dovrebbe essere percepito come uno strumento di crescita, che accompagni anche coloro che vogliono scommettere sul proprio futuro, permettendo a tutti i cittadini, a partire dai disabili e da chi è in posizione di svantaggio, di poter essere protagonisti e attivi. Spesso, al contrario, abbiamo assistito a una penalizzazione degli investimenti per la crescita, considerati nell’ottica dei costi. Ci si dimentica che tutte le categorie, in particolare i giovani, se vengono sostenute nel loro rischio hanno una propensione maggiore a mettersi in gioco. Se, invece, vengono lasciate da sole ripiegano su se stesse. E oggi la società mostra un drammatico ripiegamento in sé.

In questi ultimi tempi si è riproposta la questione dell’etica pubblica, di una politica non sempre estranea al malaffare e a condotte guaste, mentre i cittadini mostrano di avere più fiducia nel volontariato. Che cosa il Terzo Settore può insegnare alla politica?
La trasparenza. Nel Libro Verde diciamo che anche noi dobbiamo essere più attenti alla trasparenza, per essere sempre più virtuosi e continuare a godere della stima dei nostri concittadini. La stima di cui godiamo oggi è dovuta al fatto che siamo sempre stati connessi con la realtà concreta, gli italiani ci vedono operare sul territorio ogni giorno. Anche all’interno delle istituzioni pubbliche bisognerebbe aumentare gli spazi di trasparenza, perché solo così può tornare a crescere la fiducia dei cittadini. In questa logica, riteniamo che la questione morale sia fondamentale, determinante. La modalità con la quale opera il Terzo Settore, cioè la gratuità, l’attenzione all’altro senza alcun tornaconto, è un aspetto che dovrebbe essere mutuato in qualche modo dalla politica. Troppo spesso essa è fatta solo di interessi, non voglio dire illegittimi, ma si basa solo su questi, mentre crediamo che chi si mette al servizio del bene comune dovrebbe avere quella passione disinteressata che in qualche modo è a fondamento degli Stati moderni.

Un altro punto nodale per la società italiana è quello dei nuovi italiani, l’integrazione di chi vive e lavora nei nostri confini. Quali sono le proposte del Terzo Settore?
Per noi l’integrazione deve essere la chiave per affrontare il tema dell’immigrazione. Dobbiamo scommettere con determinazione sul fatto che si possa creare un modello di cittadinanza fondato sulla coesione di tutti i cittadini, anche dei nuovi, finalizzata alla crescita dell’intero paese. Per fare questo c’è bisogno di politiche mirate a una vera integrazione, e una vera integrazione porta alla cittadinanza. Pensare che si possa integrare senza giungere al risultato di far diventare cittadini le persone integrate è un’illusione. Siamo stati molto critici con le ultime norme approvate, in particolare, con il pacchetto sicurezza.

Che cosa non vi convince di quel provvedimento?
Riteniamo che a fronte degli impegni richiesti agli stranieri non ci sia un riconoscimento adeguato nell’ottica di una vera cittadinanza. E il permesso di soggiorno a punti è significativo in questo senso.

Quindi, concretamente, il problema della cittadinanza come può essere affrontato?
Deve essere un percorso perché la cittadinanza non va svenduta, è un valore importante. Però dobbiamo fissare dei paletti ben precisi che orientino la persona che compie questo percorso. Oggi c’è troppa discrezionalità nella concessione, non si va a indicare chiaramente allo straniero che cosa deve fare per essere integrato. Quanto alle strategie, l’elemento linguistico è prioritario, ma anche la conoscenza della Costituzione, delle leggi, il comportamento virtuoso all’interno della società, il fatto di pagare le tasse, di essere inseriti regolarmente nel contesto sociale, di mandare i figli a scuola. Noi contestiamo il fatto che alla fine di tutto ciò non ci si può limitare alla concessione di un permesso di soggiorno, ma occorre prevedere la cittadinanza per quanti la chiedano. Un altro aspetto da affrontare è quello dello ius sanguinis e dello ius soli. Si dovrà andare verso la possibilità di cittadinanza a quanti nascono nel nostro paese.

Appunto, il problema delle seconde generazioni, dei ragazzi nati o cresciuti qui che, arrivati al diciottesimo anno di età pensando di essere uguali a tutti gli altri, si accorgono che non è così, che il paese non li riconosce come tali e rischiano di ritrovarsi con un problema di identità.
Un errore gigantesco, perché rischiamo di creare degli apolidi in quanto questi ragazzi non hanno più un paese di provenienza, perché di fatto sono pienamente italiani. E poi perché rischieremmo di perdere giovani di cui abbiamo bisogno, che hanno studiato nelle nostre scuole, che parlano la nostra lingua, che hanno una propensione a scommettere su se stessi e sul proprio futuro maggiore di quella che hanno i loro coetanei italiani. Sui primi c’è una scommessa sociale, anche da parte della famiglia, superiore di quanto non sia quella sui giovani italiani. In questo senso, non riconoscerli è una specie di suicidio da parte delle nostre istituzioni.

E il Terzo Settore che cosa può fare a questo proposito?
Noi mettiamo anche le nostre capacità e competenze a disposizione. Nell’ambito dell’integrazione, come organizzazione sociale possiamo fare molto, sia sul fronte linguistico che culturale, inserendo in percorsi di cittadinanza attiva le persone straniere. In questi anni, abbiamo svolto un’opera notevole nell’accoglienza e nella tutela. Siamo disponibili anche a fare di più, ma vorremmo che il nostro lavoro non fosse contraddetto costantemente dalle scelte dello Stato.

pubblicato su FareFuturo Magazine il 23 giugno 2010

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