Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca

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di ENRICO GAGLIARDI

Sarebbe bello per una volta poter discutere di un provvedimento del Governo senza pregiudizi, solo sotto il profilo dell’opportunità e della legge, soprattutto senza dover essere collocati, a seconda dei casi, nel partito del premier o in quello “dei magistrati”.
Un’operazione del genere purtroppo in Italia sembra impossibile; la gran parte dei commentatori è troppo influenzata da pareri ed opinioni politiche che con un’analisi giuridica (unica vera “bussola”, quando si parla di testi di legge) non possono e non devono essere mischiate.
Il provvedimento sulle intercettazioni telefoniche che il Parlamento si appresta ad approvare in via definitiva purtroppo non ha fatto eccezione in questo senso. Gli addetti ai lavori si sono immediatamente divisi tra chi ha difeso strenuamente la riforma e chi invece, attaccandola, ha accusato Berlusconi di soffocare la libertà di stampa e l’operato della magistratura.

Tralasciando questo inutile scontro tra tifoserie, proprio l’analisi giuridica fa emergere un provvedimento lacunoso e contraddittorio sotto molti punti di vista.
Bisogna sottolineare come innegabilmente nel corso degli anni si sia abusato delle intercettazioni telefoniche, spesso utilizzate in maniera dissennata e per motivi che con le esigenze probatorie non c’entravano nulla; né può tacersi che, allo stesso modo, tanti giornali abbiano creato fili diretti con le Procure della Repubblica, violando sistematicamente la segretezza degli atti di indagine a detrimento soprattutto delle persone di volta in volta indagate. Detto questo però non si può, come si suole dire, buttare il bambino con l’acqua sporca, limitando in maniera consistente il ricorso ad un mezzo di ricerca della prova, che ha contribuito alla risoluzione positiva di innumerevoli inchieste.
Infruttuoso leggere dietro la riforma un ipotetico interesse di Silvio Berlusconi a ridurre il potere dei magistrati inquirenti; meglio invece analizzare singolarmente i punti che poco convincono.
Non convince per esempio il presupposto per chiedere le intercettazioni, gli “evidenti indizi di colpevolezza”, che inevitabilmente restringono in maniera sostanziale l’operatività dell’istituto; anche la modifica rispetto al testo originale (prima si parlava di “evidenti indizi”) in realtà non sposta minimamente la questione proprio perché i due termini, come molti giuristi hanno già segnalato, nel campo del diritto processuale penale non si caratterizzano per grandi differenze. Piccole sfumature linguistiche e nulla di più.

Fortissime perplessità suscita anche la nuova disposizione in base alla quale il magistrato non potrà procedere ad intercettazioni per procedimenti nei confronti di ignoti. In altri termini, qualora il testo non dovesse subire modifiche, moltissime indagini riceveranno un grosso danno dal punto di vista dell’efficienza: è di tutta evidenza infatti come molto spesso i procedimenti nascano sulla base di una notitia criminis generica che solo in seguito all’utilizzazione di mezzi di ricerca della prova (su tutti, le intercettazioni) diventa attribuibile ad un soggetto specifico. Invertendo i fattori e le modalità di esecuzione il problema salta agli occhi. Basti pensare ai reati di violenza sessuale o di estorsione nei quali, per la gran parte dei casi, non è facile ipotizzare preventivamente il “nome” del possibile colpevole.
Non convincono poi i termini entro i quali poter effettuare le intercettazioni, tranne che per i reati di mafia e terrorismo, decisamente troppo brevi.
Forse però il dato più singolare se non addirittura illogico della legge in discussione è quello relativo alle modalità di autorizzazione delle intercettazioni. Il pubblico ministero non dovrà più chiedere al GIP l’autorizzazione ad intercettare, ma ad un collegio di ben tre giudici appartenenti (così sembra dire il testo della norma) al tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello. Il punto di riferimento del procuratore in altri termini non sarà più un solo giudice ma tre. Salta agli occhi in maniera evidente l’assurdità di una scelta del genere, assurdità ancora più lampante se si considera che nel nostro ordinamento processuale un solo giudice, può, allo stato degli atti, condannare addirittura all’ergastolo. Dunque quello stesso giudice che da solo può assumersi la responsabilità di condannare un soggetto al carcere a vita poi ha bisogno di altri due colleghi semplicemente per autorizzare un’intercettazione telefonica. In pochissimi, eccezione fatta per alcuni giuristi, hanno messo in luce una tale assurda contraddittorietà.

Altro serio problema è legato ad un profilo squisitamente tecnico: dove trovare in ogni singolo tribunale tutti questi giudici? Già in sede di scrittura della riforma, che nel 1998 ha stabilito l’incompatibilità della figura del GIP e del GUP in capo alla stessa persona nel medesimo procedimento, vi erano state le medesime polemiche dettate di una carenza di organico che non avrebbe consentito una tale divisione dei ruoli. Le cose, a distanza di più di dieci anni, non sono affatto cambiate.
Poca chiarezza insomma, poca coerenza e soprattutto una riforma disorganica che crea molti più problemi di quelli che intende risolvere. I guasti di certa stampa, che senza dubbio vi sono stati, non si risolvono certo attraverso una cura peggiore del male

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