Liberalismo

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di Giovanni Orsina

Chi studia la storia conosce l’importanza della variabile «tempo»: quanto conta, insomma, non solo che certe cose accadano, ma che accadano in un determinato momento piuttosto che in un altro. Per tanti versi, si potrebbe sostenere che la grande fortuna del Regno Unito sia la sua precocità politica: oltre la Manica la grande rivoluzione della modernità politica è avvenuta prima dell’Illuminismo, l’abolizione del dazio sul grano prima del cataclisma europeo del 1848, l’allargamento del suffragio prima del socialismo, la democratizzazione del sistema politico ben prima della Grande Guerra… Per altrettanti versi, potremmo invece leggere la vicenda italiana come la storia di un Paese sempre in ritardo, e perciò eternamente condannato a una rincorsa affannosa.

Il paradigma interpretativo del «ritardo» può servire pure a capire i destini del pensiero liberale italiano, sul quale, a partire dell’articolo pubblicato lunedì scorso da Vittorio Macioce, si stanno ora interrogando le pagine del Giornale. Al liberalismo insomma l’Italia pare essere giunta nel momento in cui alcune delle finestre storiche di opportunità per quel pensiero si andavano, se non proprio chiudendo, quanto meno facendo più anguste. In più, quando infine al liberalismo è riuscita ad arrivarci, e seppure con imponenti riserve mentali, il nostro Paese ci è arrivato ben più nella teoria che nella prassi politica. In questo scorcio di 2008, così, ci troviamo con un’elaborazione ricca ma assimilata tardi dal Paese, un clima storico non proprio favorevole, e ben poco ancora di fatto sul terreno della pratica politica. E non possiamo allora meravigliarci troppo di come i maestri liberali – insieme ai loro allievi, e forse pure al loro pubblico – siano stanchi di fare ancora, dopo vent’anni, la voce di chi grida nel deserto.

Non può esservi dubbio che la vera età dell’oro del liberalismo siano stati gli anni Ottanta: il momento in cui si infrangeva infine l’«onda lunga» del consenso keynesiano postbellico, i cui aspetti più deteriori erano stati per giunta aggravati dal populismo e dalla «rivoluzione dei desideri» degli anni Sessanta. Ferme restando le ovvie differenze, la situazione economica italiana dei tardi anni Settanta presentava più che qualche punto di contatto con quella inglese. Nel periodo in cui però, affrontando immensi rischi politici e sociali, Margaret Thatcher metteva severamente in ordine l’economia inglese, nella Penisola – malgrado sul terreno culturale fiorissero non poche novità, e basti pensare al ripensamento del socialismo – un sistema politico a fine corsa impilava il più mastodontico e illiberale dei debiti pubblici.

In Italia ci vollero gli anni Novanta, il crollo del Muro di Berlino, e poi quello della Prima Repubblica, perché finalmente il liberalismo diventasse di moda. Venne così l’epoca nella quale non soltanto Berlusconi poté vincere le elezioni promettendo una rivoluzione individualistica, ma perfino i bolscevichi più incalliti non resistevano al vezzo di definirsi liberali. Seppure aggiungendo, magari, «di sinistra». Quell’epoca però – l’epoca in cui Fukuyama profetizzava la fine della storia e la globalizzazione economica pareva soprattutto un’opportunità – non è poi durata tanto a lungo. E quando della fase storica succeduta alla Guerra Fredda le opinioni pubbliche occidentali hanno cominciato a percepire i rischi più che i vantaggi, nel nostro Paese la breve stagione della moda liberale si è conclusa.

Per lo meno sul terreno culturale, tuttavia, quella stagione non è certo passata invano.

In primo luogo perché ha lasciato dietro di sé una consistente messe di riflessioni e pubblicazioni: dagli anni Novanta è stato fatto davvero tantissimo da un lato per portare in Italia i grandi pensatori liberali stranieri, dall’altro per riscoprire e valorizzare quelli autoctoni. E in secondo luogo perché il clima complessivo nell’opinione pubblica e perfino nell’intellighentia italiane è effettivamente mutato, e non poco. Per quanto i ritardi culturali italiani continuino a pesare, su tante ricette liberali c’è oggi – in teoria – un consenso sorprendentemente ampio.

Tanto ampio, per lo meno, quanto può esserlo in un Paese storicamente illiberale come il nostro. Il tentativo esperito l’anno scorso di «vendere» il liberismo alla sinistra, ad esempio, negli anni Novanta sarebbe stato difficilmente pensabile. Per tacere degli Ottanta. O, per prendere un altro caso, la necessità che nelle Università italiane siano portati il merito e la concorrenza è stata ormai ripetuta con grande enfasi da ministri dell’una e dell’altra parte politica. Ciò nonostante, di merito e di concorrenza nell’Università italiana continuano ad essercene davvero pochi. O, per dirla altrimenti, se sul terreno del pensiero la stagione della «moda» liberale qualche risultato l’ha dato, su quello della pratica politica il raccolto è stato infinitamente più povero.

La ragione è presto detta: pensare che il rilancio del Paese richieda competizione, valorizzazione del talento, creatività individuale non costa nulla. Perfino dirlo costa poco. Ma trasformare questo pensiero in fatti – ancora una volta, Margaret Thatcher è maestra – è un’operazione socialmente e politicamente assai dolorosa. Sempre più dolorosa, per altro, man mano che il tempo passa, e destinata alla fine del tempo (fine che forse, ahinoi, è già arrivata) a diventare ormai impossibile e inutile. Nessuno ha avuto negli ultimi quindici anni né pare avere oggi la forza di compierla, quest’operazione: di affrontare il lungo e faticoso travaglio che solo può fare, di una società corporativa, una società liberale.

Che cosa può pretendersi in questa situazione dai maestri liberali, o anche dai loro allievi? Tanto di quel che andava detto, ormai, è stato detto. Il baricentro dell’opinione pubblica per tanti versi è stato spostato, e, data la storia del Paese, forse più di così non lo si può spostare. A quale interlocutore politico stanno parlando però i liberali? Dove sei, Maggie?

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