Festival economia: La rivoluzione industriale fra progresso e povertà

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Quella che stiamo vivendo non è, naturalmente, l’unica rivoluzione tecnologica che l’umanità ha conosciuto. E, come sempre, le rivoluzioni tecnologico/industriali portano con sé progresso e povertà, nuove opportunità e profonde lacerazioni sociali. Ne ha parlato stamani Robert Allen, docente della New York Università, in passato anche ad Oxford.
Introdotto da Marco Panara, Allen ha proposto, come nei suoi libri, una lettura della rivoluzione industriale basata sul costo del lavoro, della vita, del capitale, dell’energia nei vari luoghi e nelle varie epoche, individuando di volta in volta il fattore di propensione per l’innovazione, che mette in moto, dalla prima rivoluzione industriale in poi, i cambiamenti dei sistemi produttivi. Ciò consente di spiegare le diverse dinamiche dello sviluppo nei diversi paesi, sia quelli capitalisti sia l’Unione Sovietica o paesi usciti molto velocemente da un tardivo Medio Evo come il Giappone, a differenza di altri. Consente anche di spiegare le conseguenze dell’innovazione tecnologica nel breve e nel lungo periodo. In genere, nel breve periodo, c’è chi soffre delle conseguenze dell’innovazione tecnologica, mentre i benefici vengono raccolti dalle generazioni successive. Storicamente sempre la crescita dei salari ha portato ad un “balzo tecnologico” per comprimerli, e questo spiega l’ostilità dei lavoratori nei confronti dell’ingresso di nuove macchine.
Guardando agli effetti delle rivoluzioni industriale in una prospettiva globale, veniamo da due secoli in cui il divario fra paesi più poveri e paesi più ricchi è continuamente cresciuto, anche se ora lo sviluppo dell’Asia sta iniziando, debolmente, a cambiare le cose. In genere, i paesi poveri sono tali perché utilizzano tecnologie obsolete, mentre quelli più ricchi hanno la possibilità di innovare continuamente, alzando la produttività del lavoro e contendendo la crescita salariale. Anche nei paesi ricchi la diseguaglianza è cresciuta: salari bassi e remunerazione dei manager in continua crescita. Ciò ha portato ad esempio alla crescita del trumpismo negli Usa.

Nella sua narrazione Allen è partito dall’Inghilterra di metà 700, spiegando che anche allora le domande erano le stesse di oggi: che cosa succederà, chi ci guadagnerà dall’innovazione tecnologica e chi no e così via. Gli economisti invitano sempre all’ottimismo. Ma per lo studioso bisogna essere un po’ più attenti nel fare queste proiezioni. A lungo termine le nuove tecnologie generano effetti positivi – anche se non per tutti – ma nel breve molte persone possono patirne le conseguenze, in termini di reddito e salari.

“Io sono pessimista – ha detto Allen – , durante la storia abbiamo visto tanti rimanere indietro, e dobbiamo chiederci se questo succede anche adesso. Dobbiamo interrogarci sull’implicazione delle nuove tecnologie, dei robot, anche perché sono innovazioni che oggi si proiettano su uno scenario globale. Magari alcune innovazioni vanno a beneficio di un popolo ma non al contesto globale”. Riguardo alla distribuzione del reddito, il gap fra le regioni del mondo più povere e più ricche del mondo prima della Rivoluzione industriale era del 50%, oggi la divergenza fra ricchi e poveri è 20 volte superiore. Di recente i paesi più poveri hanno iniziato a guadagnare terreno, soprattutto per effetto delle dinamiche in Cina e Asia Orientale, ma il divario rimane.

La prima fase delle rivoluzioni industriali ha interessato soprattutto il Regno Unito, la seconda, a metà Ottocento, ha attraversato un po’ tutto l’Occidente, la terza, che stiamo  vivendo, ha effetti diseguali per effetto della globalizzazione. L’approccio storiografico di Allen consente di mettere a fuoco le caratteristiche di ogni fase. Ad esempio, perché il Regno Unito è “arrivato per primo”? La prima globalizzazione la si è avuta già  nel 7-800. All’epoca molta parte dei filati veniva importata dall’Oriente, dove il costo del lavoro era enormemente più basso che in Inghilterra. Per spostare la produzione industriale nel Regno Unito è stato necessario abbattere il costo del lavoro; ecco perché è diventato imprescindibile investire nelle tecnologie. In generale, la differenza fra le varie parti del mondo precede la rivoluzione industriale. La concentrazione di capitale ha consentito in Inghilterra di investire in macchinari e quindi incrementare la produttività del lavoro umano e, in un primo tempo, non far crescere i salari. Quando i salari sono cresciuti si sono introdotte nuove tecnologie che hanno consentito nuovamente di abbatterli, da cui anche al fenomeno del luddismo. Lo sviluppo dell’Occidente si spiega in larga parte con queste dinamiche di crescita dell’innovazione tecnologica e compressione dei salari. Il cambiamento tecnologico avviene quindi solitamente nei paesi ricchi, perché sono quelli che hanno maggiore disponibilità economica per avviare un nuovo ciclo di innovazione industriale.

Ancora oggi i paesi poveri utilizzano tecnologie antiquate. Un tornitore marocchino utilizza macchine che obbligano all’impiego di tutti gli arti compresi i piedi, simili a quelle utilizzate dalle donne europee addette a questi lavori nel XVII secolo. Anche nei paesi ricchi però i salari oggi crescono poco. Forse è anche per questo che l’investimento si sposta sull’intelligenza industriale. Per abbassare la remunerazione dei livelli più alti del mercato del lavoro.

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