La destra e gli immigrati – Lo Zibaldone n. 413

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(Ernesto Galli della Loggia, Corriere) Quando impreca contro l’invasione degli immigranti, la destra italiana sembra fare di tutto per dimostrare la sua cifra essenziale: il vuoto politico, l’inesistenza di idee e di programmi. A cui essa supplisce con appelli all’emotività, con il dar voce crudamente a “ciò che pensa la gente”. Il che può anche essere giusto, ma cessa completamente di esserlo quando poi ci si guarda bene – come essa per l’appunto si guarda bene – dall’offrire ai sentimenti e alle opinioni la minima soluzione sensata, qualunque sbocco che non sia un no cieco, il chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Che cosa propone di fare Matteo Salvini, ad esempio, quando l’Sos di una zattera di disperati semisommersa dalle onde arriva a un nostro centro radio? Ce lo dica: in concreto non a chiacchiere, che cosa si dovrebbe fare? Lasciarli affogare e chiuderla lì? Magari speronarli per fare prima? E una volta raccolti dove li si porta? “Indietro”: indietro dove? Sulle coste libiche che sono terra di nessuno? Per sbarcare sulle quali ci vuole un’operazione militare in piena regola, magari da replicare dieci volte a settimana? È questo che propone Salvini?

Anche l’altra panacea sempre evocata dal capo leghista e dai suoi – aiutarli a casa loro -sembra alquanto nebulosa. I migranti arrivano da territori vastissimi, alcuni in stato di guerra. Che cosa si suggerisce di fare? Di dare alcuni milioni di euro ai più truci governi e poteri locali perché ci facciano il piacere di trattenerli? Di impiantare (così, senza essere invitati?) in quelle immense contrade (dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea: milioni di chilometri quadrati) uno, due, cento Centri di qualcosa per cercare di dissuadere chi se ne vuole andare dal farlo? Ma come, concretamente? Servendosi di quali e quanti mezzi? Un tale balbettio non vede coinvolta però solo la Destra leghista e parte di Forza Italia. Sul tema dell’immigrazione Beppe Grillo, infatti, pensa e parla esattamente come Salvini. Quel balbettio esprime dunque una più vasta diseducazione politica di una parte importante del Paese. Che non ama soffermarsi a riflettere su alcun problema in termini di soluzioni possibili, di modi realistici per attenuarne le conseguenze negative, ma la fa sempre facile, proponendo rimedi immaginari che esistono solo nella sua testa. E ogni volta sembra interessato solo a trovare un nemico contro cui scagliarsi.

La questione meridionale

(Aldo Penna, Circolo Rosselli) Un rapporto dello Svimez, ripreso per alcuni giorni da tutta l’informazione italiana, sottolinea, senza però investigarne le cause, quello che chiunque viva al Sud ha ben chiaro: si sta peggio di dieci anni fa e l’emigrazione è oramai un pellegrinaggio di massa verso le Terre Sante del Nord. Le crude cifre del rapporto registrano, dopo un secolo, l’aumento della distanza tra le due Italie. Così mentre la Germania a venticinque anni dall’unificazione ha raggiunto l’obiettivo di far convergere il suo Est ai livelli del più sviluppato Ovest, l’Italia insegue l’identico obiettivo da 155 anni con quasi nessun risultato.

Di chi sono le colpe? L’insigne storico Pasquale Villari, nelle sue lettere meridionali, parlava di camorra e mafia, delle caratteristiche e dislocazione territoriale. Cento anni dopo ci troviamo a ragionare ancora su questi fenomeni reiterando in modo inquietante molte delle affermazioni dello storico. Nel secondo dopoguerra le rivolte contadine e la redistribuzione dei latifondi fu salutato come l’inizio di un possibile processo di liberazione. Intervennero poi i massici trasferimenti economici delle varie casse speciali, la realizzazione di alcuni insediamenti industriali ciclopici pagati dallo Stato e l’attesa miracolistica in una contaminazione possibile che trasferisse il benessere del Nord al Sud. La riforma agraria si tradusse in trasferimenti di terreni non accompagnati da alcuna assistenza, e parzialmente fallì. Gli investimenti furono guidati non dallo spirito del new deal che dall’altra parte dell’Oceano aveva consentito la rinascita di una nazione, ma da una fame di risorse che cambiarono la vita di alcune centinaia di famiglie e non certo dei milioni di uomini e donne cui erano destinati.

Nel frattempo l’avvento del suffragio universale portò alla scoperta della forza elettorale delle organizzazioni mafiose e al cambio radicale del rapporto tra forza criminale e sistema politico. Non più sicari o squadroni punitivi da utilizzare contro gli avversari ma un’organizzazione con cui trattare per costruire fortune elettorali. Giacimenti del consenso che hanno consentito alle mafie di beneficiare di immense protezioni da parte delle istituzioni pubbliche. Quando assistiamo inorriditi al tribalismo sociale che devasta molti paesi impedendo l’affermarsi di uno Stato unitario e condannandoli a una guerra perpetua e alla povertà, non ci avvediamo che, con le dovute differenze, nel Sud dell’Italia si combatte da anni una battaglia tra fazioni in cui il bene comune è solo l’icona da innalzare per chiamare a raccolta i fedeli ma la pratica risponde alla scientifica ricerca di privilegi di aggiungere ai tanti già goduti.

Che fare dunque? La triade del male: burocrazia autoreferenziale e ingorda, politica faziosa e succube, mafie rinnovate e mimetizzate, operano a pieno regime. Destra e Sinistra al Sud hanno quasi annullato le differenze e, con qualche lodevole eccezione, amministrano male ambedue. Eppure il Sud per un periodo breve, quello del boom economico, era riuscito a ridurre le distanze dal Settentrione. Il Pil meridionale rapportato a quello del Centro Nord ha conosciuto un calo ininterrotto, dall’Unità fino agli anni 50 attestandosi nel 1959 al 53%. Durante gli anni Sessanta e i primi Settanta l’effetto congiunto del miracolo economico, di interventi strutturali e di una politica riequilibratrice, portarono il Pil pro capite a oltre il 63% di quello del Centro Nord, percentuale che negli ultimi quaranta anni non abbiamo più toccato. L’istituzione delle regioni, delle burocrazie regionali, dei localismi esasperati, la spasmodica ricerca del consenso ha inabissato ogni serio proposito di convergenza. Per capire quanto l’inefficienza delle potenti burocrazie regionali unite a una politica meridionale rinunciataria e a una criminalità mai domata abbiano inciso sull’attuale disastro raccontato dallo Svimez, basta guardare a quella che è sbandierata come una risorsa sottoutilizzata, i Fondi strutturali.

Cosa è accaduto negli ultimi decenni in Europa, quante aree sono transitate da “fuori convergenza” a regioni “in transizione”, da un reddito pro-capite inferiore al 75% della media UE a un reddito che supera questa soglia? Qui si apre il vaso di Pandora della vergogna italiana e meridionale. Scorrendo i grafici si ha la percezione di un disastro apocalittico. La Spagna, nel programma 2000-2006 contava sette regioni meno sviluppate: nel 2014 ne ha soltanto una. L’Irlanda ne aveva tre, ma all’inizio della nuova programmazione è uscita dal novero dei Paesi con aree sotto-soglia. La Finlandia aveva sei regioni sotto-soglia mentre oggi è fuori. La Germania presentava nel 2000 tutto il suo Est, vasto per superficie e popolazione quasi come il nostro Sud. Quindici anni dopo tutti i Land della Germania dell’Est hanno oltrepassato la soglia della convergenza uscendone totalmente.

Persino la Grecia passa da otto regioni a sei. La vergogna d’Europa si chiama Italia. Tra il 2000 e il 2014 solo la Sardegna è fuori dal sottosviluppo, mentre la Basilicata vi è rientrata. Guardando la mappa dell’Europa a 27 si percepiscono due macro-aree ad obiettivo convergenza: l’Est Europa e il Meridione d’Italia. Ma la prima si muove rapida e tutti gli indici di crescita lasciano presupporre che nel 2020 buona parte di quel territorio sarà fuori dall’area di convergenza. L’Italia no, il suo meridione no. Tutti le cifre elencate senza passione dallo Svimez indicano un peggioramento e nessun rimedio all’orizzonte. Se le classi politico/burocratiche non impegnano i fondi europei o li dilapidano in iniziative improduttive, non accade nulla. Nessun dirigente pubblico è rimosso e nessun politico è penalizzato.

Un grande Paese dovrebbe parlare di fronte a questi dati non di questione meridionale, ma di emergenza nazionale. Con l’aggravante che il patto di stabilità fotografa i bassi impieghi di risorse del Meridione e impone tetti sempre più claustrofobici alle disastrate economie del Sud. Passate la bufera delle cifre, oggi dello Svimez, ieri del Censis, con valutazioni similari, si torna tutti nelle proprie tane. Il sistema dell’informazione insegue lo scandalismo, mentre il macro-scandalo di una nazione incapace di salvare se stessa lo dovrebbe tenere occupato e vigile in permanenza. Un Parlamento ubbidiente non riesce ad avere colpi d’ala e immaginare rinascenze. Le caste dorate si distinguono per il fasto dei loro paramenti e una grande massa di popolo si omologa sempre più verso il basso.
Ma questa è l’Italia, e forse anche per il Sud, quando il disastro non potrà più mascherarsi dietro le cifre unitarie, arriveranno i duri diktat europei.

Recuperare il Sud

(Salvatore Bragantini, Corriere) Dagli anni 70, come un fiume carsico, i mali del Mezzogiorno s ’impongono periodicamente al dibattito. Negli anni 50 un ceto politico lungimirante istituì e gestì bene la Cassa del Mezzogiorno, la nostra versione della Tennessee Valley Authority, con cui Roosevelt tirò fuori gli Usa dalla depressione. Lontani quegli anni, morti Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno e pochi altri grandi, per la nostra classe dirigente, politica ed economica, il Sud divenne via via un seccante mal di testa, o un serbatoio di voti, per ottenere i quali ogni mezzo è buono; in sodalizio con i capetti locali, cui gli elettori sono grati dei piccoli favori ricevuti. Nadia Urbinati su Repubblica deplora l’approccio dell’Italia sabauda al Sud, visto solo come problema di ordine pubblico; storicamente ha ragione, ma oggi in troppe zone quel tema è ineludibile, una macchia per l’Italia, che va lavata. Altri Paesi riescono a debellare i propri mali, perché non possiamo farlo anche noi? Quelli del Sud sono per lo più di produzione locale e senza un riscatto autoctono poco cambierà; lo Stato potrebbe però far molto e il disinteresse dell’Italia per una piaga che ne affligge tanta parte è scandaloso.

Il luogo privilegiato dello sviluppo, economico e civile, è la città, eppure non ci turba che andare a vivere in tante città meridionali sia oggi non appetibile, per ragioni che, criminalità a parte, vanno dai trasporti, alla scuola, alla sanità, ai servizi in genere; non fu sempre così, non lo impone il fato. Non sarà l’Alta velocità a risolvere quei mali, ma conta, e come, che da Napoli in poco più di 4 ore di treno si arrivi a Milano (800 km), mentre ne servono altrettante per andare non si dice a Matera ma a Bari (230 km). I dislivelli Sud/Nord sono noti, ma finché gli abitanti di tante zone del Sud non avranno servizi di buon livello, come convincere le famiglie a spostarsi là, ove si presentino occasioni professionali interessanti? Problemi di vivibilità delle città ci sono anche altrove (non a caso Renzo Piano vuol rammendare la periferia milanese), ma senza la drammatica intensità del Sud.

I grandi nodi non si sciolgono solo parlandone; ma scioglierli è possibile, e doveroso. Lo Stato potrebbe darsi procedure straordinarie per sostituirsi alle amministrazioni locali inefficienti o corrotte, per risanare almeno le città in condizioni più critiche. Nella lotta al crimine organizzato, perché non premiare – come fanno gli Usa contro la malafinanza – chi consente di sequestrare i patrimoni mafiosi, dandogliene una fetta? Mettiamo però da parte le attese miracolistiche, attende il Paese tutto un’opera pluridecennale, da avviare subito. Essa va inquadrata in una prospettiva europea. Nell’eurozona, il peso del debito italiano fa paura, ragione non ultima della fiera ostilità dei nordeuropei verso gli eurobond. Il recupero del Sud, oltre a essere un dovere morale per l’Italia, darebbe un gran contributo alla crescita e, per tale via, alla riduzione del peso del nostro debito sul Pil. Ciò renderebbe possibili grandi progressi nel governo dell’Europa; dal riscatto del Sud dipende perciò anche la ripartenza di questa. Con la sua pronta intelligenza politica, Matteo Renzi coglie il ruolo nodale del Sud nell’attuale temperie italiana ed europea; è il suo mutevole tatticismo a far temere che fra poco il Sud, superato dall’hashtag di turno, torni nell’ombra, a far silenziosamente macerare il grande progetto europeo.

Il nuovo Senato

(Michele Ainis, Corriere) La madre di tutte le riforme (quella costituzionale) è incinta da trent’anni. Nel frattempo il nascituro si è ritrovato orfano dei suoi molti papà, da Craxi a De Mita, da Berlusconi a Letta. Gli rimane l’ultimo, il più determinato. Matteo Renzi, fino ad oggi, quando promette, fa: divorzio breve, Italicum, Province, banche popolari, Jobs act, scuola. Anche a costo d’usare le maniere spicce (maxiemendamenti e voti di fiducia). Ma in questo caso no, non è possibile. Se vuoi cambiare la Costituzione, per vincere devi convincere. Da qui il rinvio a settembre del voto finale, benché il premier l’avesse annunziato entro il 10 giugno. Poco male, tanto ormai siamo pazienti come Giobbe. Purché in sala parto non sbuchi fuori un rospo, anziché un bel principino.

Quanto al nuovo Senato, nessuno ha ancora capito che diavolo dovrebbe fare, e come, e perché. Sappiamo soltanto che sarà composto da 5 senatori a vita, 22 sindaci, 73 consiglieri regionali. Tutti a costo zero, e con funzioni zero. Sarebbe il caso di rifletterci, spendendo al meglio questo tempo supplementare che si è concessa la politica. Invece lorsignori s’avvitano in estenuanti discussioni sull’elettività dei senatori. Errore: partiamo dalle competenze, non dalle appartenenze. Cerchiamo di recuperare qualche contrappeso, avendo rinunziato al superpeso del bicameralismo paritario. E trasformiamo Palazzo Madama — istituzione in croce — nel crocevia delle nostre istituzioni.

Qualcosa nel testo di riforma c’è, però i silenzi contano più delle parole. C’è una funzione di raccordo del Senato con i territori: da un lato le Regioni, dall’altro l’Europa. Basterà a restituire un’anima alla nuova creatura? Diciamo che basta per la geografia, non per la storia. E la nostra storia è innervata dal ruolo degli enti locali, più di recente dal rapporto con l’Unione Europea. Ma è innervata – anche e soprattutto – dai contributi dell’associazionismo, delle categorie produttive, delle rappresentanze d’interessi. Non a caso l’articolo 2 della Costituzione individua nelle “formazioni sociali” la sede in cui ciascuno può arricchire la propria personalità. E non a caso i costituenti disegnarono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, aprendolo al mondo della produzione e delle imprese. Con la riforma il Cnel (giustamente) tira le cuoia, pace all’anima sua. Alla prova dei fatti, non lo rimpiangeremo. Ma non possiamo lasciare i gruppi organizzati orfani di qualsivoglia rapporto con lo Stato. Serve un canale istituzionale: quale, se non proprio il Senato?

E c’è poi il capitolo delle garanzie. Domani come ieri, il Senato contribuirà ad eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Consiglio superiore della magistratura. Però adesso, che i senatori sono la metà dei deputati; in futuro diventeranno un sesto (100 contro 630). Ergo, i garanti indosseranno un abito politico, in quanto espressi dalla Camera politica, a sua volta espressa con un premio in seggi per il maggior partito. E no, non va bene. C’è bisogno di rafforzare gli organi di garanzia, non d’indebolirli. Tanto più mentre perdiamo la garanzia fin qui rappresentata dal Senato: quante leggi ad personam avrebbe incassato Berlusconi, senza il pollice verso di Palazzo Madama?

Da ciò l’esigenza di correggere il testo di riforma, d’aggiungervi qualche riga d’inchiostro. Per esempio introducendo uno scrutinio rigoroso della seconda Camera nella scelta delle authority, i nuovi garanti. O sviluppando i poteri d’inchiesta del Senato, che viceversa la riforma circoscrive al funzionamento delle autonomie territoriali. Non si tratta di tenere impegnati i senatori, che altrimenti avrebbero ben poco da fare. Si tratta di salvaguardare gli equilibri della democrazia. Dopo di che, certo: ogni funzione richiede un funzionario. E l’elezione di secondo grado non funziona, non assicura la qualità dei senatori. Ma non è detto che l’alternativa sia soltanto la loro elezione popolare. Potrebbe essere efficace un mix, pescandone un drappello da alcune categorie qualificate, come gli ex presidenti della Consulta. Quando il Senato tratta questioni regionali, potrebbe essere utile integrarlo con i governatori, come propone il documento sottoscritto dalla minoranza del Pd. Insomma pensiamoci, d’altronde alle nostre latitudini la fantasia non manca. È il tempo che ci manca, perché ne abbiamo sprecato troppo.

Risparmiateci i numeri da circo

(Fabrizio Forquet, Il Sole 24 Ore) Per il nuovo Senato ogni senatore ha la sua ricetta. Anzi, per l’esattezza le ricette sono 513.450, quanti gli emendamenti presentati al Ddl costituzionale che riforma il Senato. Come dire 1.600 per ciascun senatore. Più di mille sono quelli di Forza Italia, altrettanti arrivano da Sel, ma è la Lega con i suoi 510.293 a sbaragliare il campo. Tanto che il senatore Calderoli, tronfio come quei signori corpulenti che in tv si sfidano per numero di cocomeri sfondati a colpi di cranio, ha potuto rivendicare il record da Guinness, annunciando per l’Aula addirittura 6,5 milioni di emendamenti. Boom. Se questo è il Senato, verrebbe da dire, meglio cancellarlo subito. Ma invece la questione delle sorti della nostra camera Alta è molto seria. E la discussione in Aula meriterà ben altro dibattito. Si parla di democrazia, i numeri da circo meglio lasciarli fuori.

Renzizzazione

(Ilvo Diamanti, Eddyburg.it) Il premier Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle “mediazioni”. Diffidente verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l’economia italiana. Con le iniziative che hanno impedito l’ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state prese da sigle autonome e singoli comitati. D’altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato, esplicitamente, contro il sindacato.

D’altronde, Renzi, da tempo, conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e di “Coesione Sociale”, che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi. Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su Repubblica, ha replicato che la <la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal premier per recuperare il voto moderato>. Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”. Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente.

Il premier ha auspicato che <nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di più>. Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d’altra parte, è stato sindaco di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto. Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd. Una consultazione di partito – per quanto aperta. E ciò sottolinea la singolare fase che attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Fase particolare, ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media — vecchi e nuovi. D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto” in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post).

Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. <Entro giovedì!>. E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.

Due escort inglesi

(Riccardo Ruggeri, Italia Oggi) Gustoso il caso di John Buttifant Sewel, 69 anni, ex docente universitario, ex vice-ministro di Tony Blair, creato baronetto 20 anni fa e ora Vice Presidente della Camera dei Lord e presidente della Commissione di Vigilanza sugli standard etici dei parlamentari. Non traete conclusioni affrettate finché non avrete conosciuto gli “standard etici”. Sui fatti, dubbi non ce ne sono, c’è un filmato che inchioda Sewel: in un appartamento adiacente al Big Ben, sta sniffando cocaina da una banconota in compagnia di due escort… ignude. Le regole dell’Establishment inglese prevedono che se qualcuno dei suoi membri viene scoperto con le dita nella marmellata, scatta la feroce autoregolamentazione a protezione del sistema, che fu già dei senatori dell’antica Roma: dimissioni e suicidio del malcapitato, mediante taglio delle vene. Oggi, la seconda modalità si è trasformata nell’esilio del reo dalla scena pubblica: verrà dimenticato in qualche resort caraibico. Per demolire definitivamente Lord Sewel viene rivelata anche una sua frase non particolarmente originale: <Le donne sono tutte puttane>. Ovviamente seguono commenti feroci sul comportamento discriminatorio del Lord verso l’universo femminile, a difesa delle donne, si immagina quelle dell’Establishment. Non appartenendo all’Establishment, io considero tale frase come discriminatoria invece verso le due escort: potrebbero offendersi loro, che svolgono semplicemente una professione antica, dietro regolare compenso (tassato).

Ma nessuno ha invece colto l’innovazione dei comportamenti organizzativi delle due escort. Qui stava la vera notizia, quella più rotonda. Chiaramente il Lord, credendosi un superuomo, chiedeva alte prestazioni per un compenso da fame (200 sterline). Le due giovani escort, autodidatte ma intelligenti, decidono di applicare la teoria, probabilmente imparata da qualche cliente di alto livello, della disruptive innovation. Cambiano in corsa il loro modello di business, introducendo nel processo una “rottura” dello schema convenzionale (ecco la business idea: il filmato autoprodotto del rapporto sessuale: maggior valore aggiunto a parità di costi/investimenti), lo vendono al giornale scandalistico Sun, ricavandone molti quattrini, che aggiungono al compenso. Viene così ripristinato il prezzo di mercato. Ora si tratta di trasformare questa “innovazione distruttiva” in una App, fare lobbying, cederla alle colleghe, previo pagamento di una tangente del 20%. Probabilmente questa App cambierà per sempre il mercato del sesso mercenario, come è stato per il servizio di mobilità pubblica. Per ragioni di privacy, non si conoscono i nomi delle due escort. Peccato, avrei voluto complimentarmi con loro, anche a nome del mitico Clayton Christensen; forse neppure lui aveva ipotizzato questa variante sessuale alla sua idea.

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Mio marito non sopporta il pelo del cane, quindi devo darlo via. Quarantanove anni, informatico, bella presenza, va d’accordo con tutti (dalla Rete).

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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