Disunità della sinistra – Lo Zibaldone n. 401

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(Massimo Rebotti, Repubblica) La vicenda della lista Tsipras (e di Barbara Spinelli) conferma tutti i più consolidati luoghi comuni che circolano sulla sinistra; che è contorta per definizione, litigiosa e sempre divisa anche quando è piccola. Anzi, più è piccola e più è divisa. Gli eurodeputati italiani della lista Tsipras da ieri sono due perché Barbara Spinelli ha lasciato il gruppo (ma tenuto il seggio). <Il progetto — ha scritto la Spinelli nel commiato — era nato come superamento dei piccoli partiti di sinistra ma ora la basta, non è più all’altezza del compito>. E quindi, in un passaggio logico comprensibile solo a qualche sofisticatissimo addetto ai lavori, si sostiene che l’unica strada contro la frammentazione della sinistra è frammentarla ancora di più. La Lista Tsipras fu lanciata nel gennaio 2013 da un gruppo di sei garanti della “società civile” (dal sociologo Marco Revelli allo scrittore Andrea Camilleri), che presto litigarono e si divisero. Tra i superstiti, la giornalista Barbara Spinelli mise subito in chiaro che, se eletta, non sarebbe andata a Bruxelles. Il suo nome, di riconosciuta autorevolezza, sarebbe servito a trainare nelle urne la lista della sinistra alternativa (che aveva scelto come leader il greco Alexis Tsipras) per poi lasciare il campo a candidati più giovani. Alle elezioni Spinelli ottenne oltre 36 mila preferenze nella circoscrizione Centro e quasi 28 mila al Sud. E cambiò idea. Dopo una lunga riflessione, mentre due candidati trentenni attendevano la sua decisione, scelse di tenersi il seggio: <La mia presenza a Bruxelles è la migliore garanzia che il progetto non venga snaturato. Mi ha convinto a cambiare opinione anche una lettera di Tsipras>. Un anno dopo <il progetto non è più all’altezza> e Spinelli ha comunicato ieri che resterà nel Parlamento europeo come indipendente, nel raggruppamento della Sinistra europea. Ha anche precisato che in Italia non entrerà in nessun gruppo perché <non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra>.

Passa la legge sulla scuola

(Lorenzo Bini Smaghi, Corriere) Penso che il dibattito sulla riforma della scuola sia ben rappresentato dall’affermazione di un esponente di Unicobas, riportata su alcuni giornali: <La valutazione come accesso a un migliore o peggiore stipendio è inaccettabile. È solo il potere del merito e io rifiuto la logica meritocratica>. In effetti, vari studi mostrano che il merito rappresenta un criterio sempre meno rilevante nella società italiana, in particolare per trovare lavoro, a paragone del ruolo svolto dalle relazioni e dalle conoscenze personali. Se il merito non conta per trovare lavoro, perché dovrebbe contare per valutare gli studenti, e tanto più i docenti? È una posizione comprensibile, soprattutto da parte dei docenti, ma anche delle famiglie che dispongono delle relazioni necessarie per consentire ai propri figli di trovare un lavoro una volta finita la scuola, indipendentemente dall’esito. Ma che ne è, delle famiglie italiane che non dispongono di sufficienti relazioni o – per chiamarle con il loro nome – raccomandazioni?

Le famiglie benestanti hanno sempre la facoltà di mandare i loro figli a studiare in scuole private, o di mandarli all’estero. Ad esempio, chi desidera che il proprio figlio impari l’inglese e non può ottenerlo nella scuola dell’obbligo perché (solo) in Italia si può insegnare l’inglese senza saperlo parlare, può sempre fargli fare delle ripetizioni private, oppure iscriverlo ad un corso d’estate in Inghilterra (guarda caso già pieno di italiani nella stessa situazione). Dov’è il problema? Il problema è che non tutte le famiglie se lo possono permettere, perché si tratta di soluzioni molto costose. Il risultato è che le famiglie più abbienti riescono a compensare gli effetti di una scuola che rifiuta la logica meritocratica, pagando di tasca propria per il curriculum extra-scolastico, mentre quelle meno facoltose devono subire le conseguenze di un sistema che risulta essere tra i meno efficienti dei Paesi avanzati, come dimostrano test effettuati da anni. In parole povere, la scuola italiana accentua le disuguaglianze sociali. Non consente peraltro nemmeno nella media di raggiungere standard accettabili, dato che un giovane su due è disoccupato. Se si ha a cuore il futuro dei giovani, e si vuole dare loro uguali opportunità, indipendentemente dalla situazione economica delle rispettive famiglie, ci sono solo due soluzioni.

La prima è quella di accettare la logica anti-meritocrazia nella scuola pubblica, come chiede chi si oppone alla riforma, o chi si trincera dietro la richiesta di far valutare i docenti solo da chi ne ha le capacità (come se la diffusione dei metodi e parametri di valutazione esistenti all’estero non fossero applicabili al nostro Paese — la famosa eccezione italiana!). In questo caso deve essere data la possibilità anche a chi proviene da famiglie meno abbienti di accedere alle scuole private o a corsi di recupero, attraverso incentivi fiscali o trasferimenti monetari, per poter essere alla pari con chi se lo può permettere. La seconda soluzione è invece di promuovere una riforma della scuola pubblica ancora più incisiva di quella messa sul tavolo, che ponga veramente al centro il merito, non solo degli studenti ma anche degli insegnanti, con test periodici, rigorosi ed uniformi in tutto il Paese, ed incentivi monetari per il corpo insegnante strettamente correlati con i risultati. Come viene fatto nella maggior parte dei Paesi avanzati. Le due soluzioni non sono necessariamente in contraddizione tra di loro, ma opporsi ad entrambe non fa altro che danneggiare gli studenti, soprattutto quelli delle famiglie meno abbienti.

Operazione Bortolus

(Salvatore Bragantini, Corriere) Per molti cittadini la modica ma inaspettata “plusvalenza”, frutto della sentenza della Corte costituzionale, sarà un piccolo regalo che tapperà buchetti del bilancio familiare. Per altri, più fortunati o sensibili ai richiami, ha dato voce a un ex agente immobiliare di Pordenone, Luciano Bortolus, percettore di una pensione netta di 2.123 euro, che avanza una “modesta proposta”. <Se la famiglia è in difficoltà, tutti devono dare una mano. A condizione che… non diventi un alibi per non tagliare gli sprechi che ancora ci sono. Chi dice che sono l’unico a pensarla così?>. Difatti, non è l’unico; da quel giorno altri, come il lettore Eugenio Gallo, di Cosenza, rilanciano la proposta. Nello stesso senso si è espressa Chiara Saraceno su Repubblica. Da Nord Est a Sud Ovest, Bortolus e Gallo ricordano quanto spesso dimentichiamo. Siamo anzitutto una comunità di persone, nonostante i fattori da tanti sfruttati per dividerci più di quanto per conto nostro già faremmo; il censo, l’etnia e l’origine geografica, la religione, l’opinione politica.

Tuttavia, se alcuni potranno raccogliere l’appello, molti proprio non possono. Pensioni da due o tremila euro (lorde!) al mese non vanno additate alle genti come frutto di superprofitti, magari “di regime”. Il richiamo suona però potente all’orecchio di chi, assai più fortunato della media dei concittadini, forse aggiungerà gli arretrati al gruzzolo (o al forziere), forse li spenderà, magari per un viaggio. È ai fortunati che parla Bortolus, invitandoci a dare, con un piccolo sacrificio, un grande segno: nell’ora della difficoltà – anche se non lo si dice, questa lo è – bisogna unirsi. Altro che stringersi “a Coorte”, basta non voler chiuderci in corte, nel senso del cortile; siamo, quasi nostro malgrado, una grande nazione europea. La discussione è l’anima della democrazia; prima approfondire i fatti, poi dibattere i prò e contro, dividersi, lungi dall’essere un male è vitale. Alla fine però bisogna decidere, ritrovando, senza rimuginare per anni, le ragioni del vivere comune.

Neoliberismo e democrazia

(Ranieri Polese, Corriere) Parla Wolfgang Streeck al Salone del libro di Torino con il suo saggio Tempo guadagnato (Feltrinelli). Streeck è noto per la sua analisi radicale dei rapporti fra il neoliberismo e la democrazia. <La crisi del 2008 – dice – non è stata un incidente, un semplice episodio. È il risultato di una serie di movimenti che si sono prodotti negli ultimi 40 anni. Fino al 1970, vigeva una politica economica keynesiana: redistribuzione dei profitti, sindacati forti, welfare. Con il ’70 però cala la produzione, gli Stati nazionali si trovano obbligati a trovare misure per prevenire turbolenze sociali. La prima soluzione è l’inflazione; seguirà l’indebitamento dello Stato, e infine l’indebitamento dei privati. Con le banche che non riescono più a farsi pagare dai creditori. E arriva l’esplosione del 2008. Ma ormai vige l’idea di un capitalismo senza più remore, c’è la deregulation, il mercato comanda. Angela Merkel parla di una “democrazia conforme al mercato”. Per salvare le banche intervengono gli Stati che si addossano i loro debiti, che vengono pagati dai cittadini>.

Oggi, però, si dice che gli effetti della crisi del 2008 cominciano a essere superati. <Comunque è ormai divenuta prassi quella di affidare a organismi non eletti dai cittadini le decisioni politiche. Come la Bce. È la finanza che comanda, e che vive sulla mobilità dei capitali: ci possono essere problemi a delocalizzare un’industria, ma per spostare il capitale da Zurigo a un qualunque paradiso fiscale ci vogliono pochi secondi. In questo regime, con i sindacati che hanno perso la loro forza, con l’aumento di disoccupazione e di povertà, la già fragile democrazia sta soccombendo>. Il capitalismo neoliberista trionfa? <Già nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, si scrisse della vittoria del capitalismo. E la globalizzazione ha amplificato le sue potenzialità. Ma è una vittoria di Pirro. Intanto cedono le strutture democratiche, e poi lo sfruttamento parossistico delle risorse energetiche sta distruggendo l’ecosistema.

Alla fine, quando, non si sa, il capitalismo distruggerà se stesso>. Critico nei confronti dell’euro: <Nel 1994, Ralf Dahrendorf lo definì una “pessima idea”, e già denunziava il progetto di far diventare tedesca l’Europa> Streeck oggi indica i risultati di questa Europa nel manifestarsi ovunque di movimenti populisti, o peggio ancora xenofobi e neofascisti come il Front National. <Espropriati dei propri diritti – la Bce non è eletta dal popolo – i cittadini non hanno più fiducia nella politica, cresce l’astensionismo e chi vota sceglie formazioni populiste o anti-sistema. E non solo nei Paesi più esposti come Grecia, Spagna, Italia>. Ma il quantitive easing di Draghi potrebbe cambiare le cose? <È un trucco, che serve solo a guadagnare tempo, ma non muta la situazione>.

Liberista o statalista?

(Andrea Mingardi, La Stampa) Nessuno vuole costringerlo dentro schemi dell’epoca passata; ma servirebbe a tutti capire che risposta dà Matteo Renzi alla domanda: <Che cos’è che deve (o non deve) fare lo Stato?>. Farsi un’idea, per ora, non è tanto semplice. Il governo Renzi è il più odiato dalla Cgil a memoria umana, ha promosso il Jobs Act e messo mano all’articolo 18. Il premier, parlando alla Borsa di Milano, ha annunciato la morte del capitalismo di relazione, non in linea con le logiche di mercato. Il governo Renzi è quello che per la prima volta ha approvato la legge annuale sulla concorrenza, con l’obiettivo di devitalizzare alcune sacche di corporativismo, e ha fatto (mostrando i muscoli) la riforma delle banche popolari. Eppure ha rinunciato a mettere mano al groviglio delle partecipate degli enti locali, sulle quali, dopo alcune prese di posizione, non proferisce parola dallo scorso settembre. Il premier vuole che l’Italia si apra gli investimenti esteri, ma ha nazionalizzato l’Ilva senza indennizzarne i proprietari: precedente che difficilmente sarà apparso rassicurante alle multinazionali che investono nel nostro Paese.  Si dirà che tutte queste scelte, quelle più liberiste e quelle più dirigiste, sono a loro modo giustificabili, e tutte rientrano perfettamente nella narrazione che Renzi ha abilmente tessuto attorno al suo personaggio: un premier schiacciasassi, senza timori reverenziali. Sono provvedimenti di facile traduzione in slogan, botte ai notai e ai padroni dell’acciaio, basta con le bardature medievali del sindacato e banda larga per tutti. C’è, appunto, una narrazione: ma non necessariamente un’idea di come sarà fatto il Paese in cui ci troveremo a vivere negli anni a venire.

Nessuno si aspetta che un leader politico faccia l’addetto stampa di Adam Smith o di John Maynard Keynes. Nondimeno che preferisca l’uno o l’altro non è cosa che interessi soltanto ai tifosi di politica (gli unici rimasti a pensare che sia una faccenda di principi e convinzioni profonde). Sapere in quale sistema d’idee un leader si identifica ci aiuterebbe a comprendere che cosa è probabile che faccia e che cosa invece no. Dove (come in Italia), mancano regole che limitino rigorosamente la discrezionalità di chi comanda, le ideologie servono a ridurre l’incertezza. Chiunque svolga una attività ha bisogno di fare i conti con ciò che può ragionevolmente aspettarsi dal governo oppure no: altrimenti, ogni decisione da prendere (un investimento, un’assunzione, una qualsiasi spesa) diventa un rompicapo. Detto di un romanziere, di un cuoco, di un architetto, “imprevedibile” è un complimento. Da chi ci governa ci aspettiamo semmai “stabilità”. Più sorprese ci risparmia, e meglio riusciamo a programmare la nostra vita.

Le convergenze obbligate

(Franco Bruni, La Stampa) Roberto Mingardi, nel suo articolo riportato qui sopra, lamenta di non conoscere il “sistema di idee” del governo Renzi, di esser disorientato dal misto di destra e sinistra, di Stato e mercato. Lo capisco e trovo giusto voler meglio sapere <che cosa deve fare lo Stato>. Anche in Europa dove, per esempio, decidere insieme la quantità e qualità di welfare desiderabili e sostenibili, richiederebbe un’ambizione strategica che ancora non è dato di vedere. Restiamo tuttavia alle sorprese pragmatiche del riformismo all’italiana. Per non disorientarci, conviene adottare due accorgimenti. Primo: non confondere la direzione di marcia con la lentezza e i compromessi dei primi passi. Se tarda la riforma della pubblica amministrazione e delle partecipate degli enti locali, è perché le resistenze conservatrici sono fortissime: è giusto pungolare il governo ma, se ne condividiamo l’intenzione, sarebbe ancor più giusto aiutarlo a trovare alleati. Aiutarlo a convincere è diverso dall’accusarlo di bluffare.

Secondo: non confondere il bisogno di chiarezza strategica con quello di cartellini ideologici. Servono riforme di tutti i tipi, nel privato e nel pubblico, che richiedono un vasto consenso trasversale. Altrimenti prevale chi le ostacola, gridando gli inevitabili costi dei cambiamenti. Sono riforme riconosciute internazionalmente necessarie, approvabili sia “da destra” che “da sinistra”, oppure più colorate, alcune di destra e alcune di sinistra, ma in modi che permettono, facendole tutte insieme, di ottenere il consenso di entrambe le parti. E’ davvero superata l’idea di chiedere più Stato o più mercato: occorre migliorare entrambi, e coordinarli fra loro; per i miglioramenti più urgenti basta il buon senso, sui dettagli si può discutere, aspettare, ritoccare. Trovare un modo per gestire la disoccupazione migliore della cassa integrazione o accrescere poteri e responsabilità di chi presiede una scuola non sono cose di destra o di sinistra. Chi ha dimestichezza professionale con le idee, aiuti a spiegare che fare in modo che i ricchi paghino l’università e i vigili urbani lavorino in strada non richiede retroterra ideologici. Serve piuttosto una formidabile solidarietà politica fra chi si schiera con l’interesse generale, per vincere chi pro-testerebbe duramente.

Serve convergere, almeno per il tempo necessario a ricostruire il dissestato campo di gioco, dove poi far competere i diversi “sistemi di idee” cari a Mingardi. Va superata la faziosità del Paese, rafforzata da un ventennio di bipolarismo fazioso. Per guidare la convergenza serve leadership politica, abile e spregiudicata. Gli ultimi tre governi, con stili ed efficacia diversi, hanno cercato convergenza per le riforme. Renzi pare aver più successo. Convengo nel chiedergli chiarezza e coerenza. Non credo invece che, almeno per ora, le ideologie servano a ridurre l’incertezza. Ogni puntiglio ideologico toglie il mal di mare agli intellettuali ma indebolisce la ricerca del consenso per fare riforme urgenti.

Il tramonto delle ideologie

(Massimiliano Panarari, La Stampa) Insomma, il premier in carica, è liberista o statalista? In effetti, visto il problema da questa angolazione, si può avere l’impressione di trovarsi al cospetto di una sorta di “sfinge Renzi”. L’immagine si fa invece più nitida se si inforcano delle lenti differenti, di tipo post-ideologico. Liberismo e statalismo rimandano infatti a un’epoca di scontri furibondi intorno alla pianificazione e alle politiche industriali, alle partecipazioni statali, e alla “guerra di civiltà” tra laissez-faire e dirigismo. Paradigmi imprescindibili, ma anche assai novecenteschi, perché dalle ideologie discendevano delle interpretazioni ferree delle leggi dell’economia. Con il tramonto di quei grandi racconti, sono arrivate nuove formule, più “leggere” sulla missione dello Stato-nazione (che ha dismesso, anche se non del tutto, le improprie vesti di Stato-imprenditore). Così, tra liberismo, terza via e statalismo, il settore pubblico ha compiuto una significativa ritirata dai domini, sempre più complessi, di un’economia di mercato che si è fatta davvero globale. Archiviate le ideologie del Secolo breve, anche la concezione dell’interventismo statale sui mercati, e quella opposta della loro autoregolazione, vanno allora considerate un po’ rétro, e troppo rigide per reggere la contemporaneità. Specie di fronte a un uomo politico che della post-ideologia ha fatto il suo tratto distintivo, oltre che il pilastro del suo progetto di partito pigliatutto.

La sua narrazione politica (appunto agli antipodi di quel sistema di pensiero chiuso e definito che si chiama ideologia) è marcatamente orientata al consenso, e al servizio di una leadership fortemente personalizzata. Le politiche del governo Renzi sembrano essere dunque svincolate da una vera programmazione e, verosimilmente, vengono dettate dalle congiunture dell’economia e dalle alleanze che, di volta in volta, il premier cerca di fare con determinati blocchi sociali (come nel caso dei famosi 80 euro del bonus Irpef per i lavoratori dipendenti). Perché con questo presidente del Consiglio (un forte e machiavellico leader di centrosinistra, vittorioso in una missione che non era riuscita neppure a Silvio Berlusconi, ovvero l’eliminazione di fatto dalla scena pubblica dei postcomunisti) i processi di deideologizzazione e disallineamento ideologico arrivano a compimento anche nel sistema politico italiano. E allora, osservata con gli occhiali di queste altre categorie, la politica economica renziana finisce per rivelarsi decisamente meno enigmatica. E’ una politica opportunista sottoposta al suo disegno di comando.
Tecnologia
La legge di Moore

(Thomas L. Friedman Corriere) Circa 50 anni fa, il 19 Aprile 1965, Gordon Moore, allora capo della ricerca di Fairchild Electronics fu invitato dalla rivista Electronics Magazine a scrivere un articolo sul futuro dei circuiti integrati (il cuore dei computer), nei 10 anni successivi. In base all’analisi del trend degli anni precedenti, Moore previde il raddoppio del numero dei transistor integrabili in un unico chip di silicio, grazie a cui sarebbe raddoppiata la potenza di calcolo a fronte di un costo lievemente maggiore. Quando ciò avvenne, nel 1975, Moore modificò la sua previsione, indicando un raddoppio ogni 2 anni. Da allora, la Legge di Moore si è sempre confermata giusta e, malgrado gli scettici, continua a farlo, rappresentando probabilmente l’esempio più rilevante della continua crescita esponenziale di una tecnologia.

Ciò che colpisce di più dell’articolo di Moore del 1965, è il numero di previsioni corrette relativamente alle applicazioni di questi chip sempre migliori. Moore anticipò di molto il personal computer, il cellulare, le auto senza conducente, gli IPad, i Big Data e l’Apple Watch. Come ha fatto? <Stavo riflettendo sui circuiti integrati. Si parlava molto del perché non sarebbero mai stati economici, e, come responsabile della ricerca, cominciavo a notare che la tecnologia avrebbe permesso di integrare sempre più elementi in un chip rendendo l’elettronica meno costosa… Non ero sicuro che questa previsione si sarebbe rivelata esatta, ma sapevo che la tendenza andava in quella direzione>.

In occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario ho intervistato Moore, che oggi ha 86 anni. Gli ho chiesto che cosa avesse imparato di più dalla Legge di Moore, data la sua longevità. <Probabilmente, che quando hai azzeccato una previsione è meglio evitare di fame un’altra. Ho evitato le opportunità di predire i prossimi 10 o 50 anni>. È sorpreso per il lungo tempo in cui si è dimostrata sostanzialmente valida? <Sono stupito. La previsione iniziale si riferiva ad a un lasso di tempo di 10 anni, che pensavo fosse già tanto, e ad un aumento da 60 a 60.000 elementi aggiunti a un circuito integrato, ovvero 1.000 volte di più in 10 anni: pensavo fosse davvero esagerato. Il fatto che qualcosa di simile si verifichi per 50 anni è davvero sorprendente. C’erano sempre ostacoli immaginabili che impedivano di andare avanti e, non appena li affrontavamo, gli ingegneri trovavano il modo di aggirarli. Ma un giorno deve pur finire. Nessuna crescita esponenziale di questo tipo può andare avanti all’infinito>.

In una serata celebrativa, l’amministratore delegato di Intel, Brian Krzanich, ha illustrato dove ci ha portato la Legge di Moore. <Se considerate il microchip 4004 di Intel prima generazione del 1971 e l’ultimo chip di Intel attualmente sul mercato, il processore Ci5 di quinta generazione, potete constatare la potenza della Legge di Moore: l’ultimo chip è 3500 volte più performante, 90.000 volte più efficiente dal punto di vista energetico, 60.000 volte più economico dei precedenti. Gli ingegneri di Intel hanno calcolato spanne che cosa succederebbe se un Maggiolone Volkswagen del 1971 migliorasse al ritmo di microchip secondo la Legge di Moore: con quella automobile, potreste viaggiare a 480.000 km l’ora. Percorrereste 3,2 milioni di chilometri con 3,78 litri benzina; e tutto ciò per la modica spesa di 4 centesimi di euro!>

Digital Money

(Federico Fubini, Repubblica) Il progresso della tecnologia accelera a una rapidità esponenziale, penetra nelle nostre vite, cancella abitudini e interi settori industriali, ma ne crea di nuovi capaci di una crescita esplosiva. È successo anni fa alla musica, che si è progressivamente smaterializzata fino a entrare nei cellulari, ma ora la smaterializza-zione sta per succedere al denaro. In questi giorni il governo danese ha proposto una misura che forse in futuro verrà ricordata come il punto di non ritorno: dal 2016, commercianti e imprese avranno diritto per legge di rifiutare pagamenti in banconote di carta o in monete di metallo. Ad eccezione di medici, dentisti, negozi di alimentari e pochi altri servizi essenziali, sarà obbligatorio saldare con un mezzo elettronico se richiesto da chi incassa. Banche e imprese potranno risparmiare i rischi e le spese, molto ingenti, che ora sostengono per gestire e trasportare il denaro fisico.

Non è del tutto una novità, ovviamente. Già oggi in Svezia gli autobus non accettano pagamenti in contanti e la diffusione di carte digitali di ogni tipo, con il rarefarsi della moneta fisica in circolazione, fa sì che le rapine di banca siano crollate da 110 nel 2008 a 16 nel 2011. In Canada la banca centrale ha smesso un anno e mezzo fa di stampare banconote, anche per incoraggiare i pagamenti con carta. In Kenya un terzo della popolazione è abbonato a M-Pesa, il sistema di bonifici via telefono con cui si versano salari o bollette, da poco esportato anche in Romania. E persino in Somalia nel 2012 il numero di pagamenti via telefonino è stato pari a quello di pagamenti con carta di credito in Italia nel 2013: in entrambi i casi, 34 per abitante.

Ma c’è sempre un momento in cui tutto accelera e la qualità tecnologica cambia. Nella musica Sony sviluppò piccole cassette con cui si poteva correre nel parco, ma pochi anni dopo la Apple di Steve Jobs affossò quel modello con l’iPod: il contenuto non solo diventava più piccolo, ma si smaterializzava e portava con sé nuovi modi di ascoltare, produrre e vendere una canzone. Con il denaro sta succedendo lo stesso, e la sola certezza è che abbiamo visto solo l’inizio. Con la Grecia l’Italia resta il Paese nel quale le transazioni elettroniche rappresentano la quota più bassa in Europa: appena il 13% del totale, contro una media del 40%.

Per ora la moneta elettronica è sempre stata “scritturale”: un pagamento con bancomat in pizzeria corrisponde a una modifica nelle scritture contabili su due conti, di chi paga e di chi è pagato. In questo caso ogni transazione implica un passaggio attraverso il sistema bancario. Roberto Giori, un imprenditore italo-svizzero erede di una dinastia di produttori di macchine per la stampa di banconote, ha sviluppato un algoritmo per portare la smaterializzazione del denaro un passo più in là: non più con trasferimento fra due conti bancari (come accade con Visa, Pay-Pal o la rete Bancomat), ma con la digitalizzazione della “moneta fiduciaria”. Nel progetto di Giori, ormai in fase di lancio, diventano immateriali le banconote stesse emesse dalla banca centrale.

L’autore del progetto conosce questo mondo da sempre: la De la Rue Giori, il gruppo di macchine da stampa di carta moneta che lui stesso ha gestito fino al 2001, controllava fino a pochi anni fa il 90% del giro d’affari globale delle macchine da stampa di denaro. Vi hanno fatto ricorso la Federal Reserve per i dollari, l’Italia, la Francia, il Giappone e altre centinaia di Paesi. Da qualche anno però Giori ha venduto l’azienda e ha sviluppato un nuovo modello di emissione di moneta digitale da parte delle banche centrali. Ogni banconota è numerata e tracciabile, mentre gli enormi costi di produzione e distribuzione materiale del denaro (100 miliardi l’anno nel mondo) vengono azzerati. Basta un numero di cellulare, e diventa possibile spostare con un tocco le banconote ridotte a icona, al destinatario. Non c’è passaggio fra i conti bancari, è semplicemente un pagamento in moneta immateriale. L’Uruguay sta sperimentando il “Giori Digital Money” e intende introdurlo in circolazione in autunno. Equador e Bangladesh hanno reso legale l’emissione di banconote elettroniche, nelle Filippine il progetto è allo studio. Sono più avanti della Danimarca. Forse perché chi arriva dopo, salta direttamente alla tappa successiva: magari in futuro succederà anche all’Italia.

Oggi

La sinistra radicale voleva cambiare il mondo, oggi si accontenterebbe della Liguria (Jena)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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