Il Governo che dice basta

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Basta con le discussioni interminabili e inconcludenti. Basta con i poteri di veto da parte delle varie corporazioni. E’ venuto il momento di decidere. Presto. Anzi, subito.

Sbaglierebbe chi pensasse che l’indirizzo politico dell’attuale Governo italiano dipenda dalla personalità, ingombrante e culturalmente approssimativa, del Presidente Renzi. E’ Renzi che è stato scelto affinché in Italia si affermasse un determinato indirizzo politico. Serviva un volto nuovo, che fosse l’incarnazione fisica dell’idea di cambiamento. Serviva un politico nominalmente “di sinistra”, che quindi, per la sua stessa collocazione nel sistema politico, potesse assumere anche scelte politiche tradizionalmente gradite dalla “destra”, in particolare quella che ha voce in capitolo nell’economia e nella finanza, senza che si determinassero però le reazioni che governanti dichiaratamente destrorsi avrebbero suscitato in larghi settori dell’opinione pubblica.

Prima che in singoli contenuti, l’indirizzo politico del Governo va colto in un atteggiamento complessivo, che può essere sintetizzato in uno slogan: «Ora basta!». Basta con le discussioni interminabili e inconcludenti. Basta con i poteri di veto da parte delle varie corporazioni. E’ venuto il momento di decidere. Presto. Anzi, subito.

Vediamo quali siano gli effetti pratici del predetto atteggiamento. In primo luogo nel partito di cui Renzi è Segretario, il PD. Le frequenti riunioni della Direzione nazionale si risolvono in un rito formalmente democratico, ma in cui tutto è già scontato in partenza. Circa l’ottanta per cento dei membri della Direzione sono stati collocati in quell’organo per sostenere sempre e comunque la linea del Segretario. Le discussioni che si svolgono nella Direzione sono puro teatro: nessuno può essere convinto. L’unica cosa certa è il vincitore. Che è il Segretario. E’ quasi superfluo aggiungere che le riunioni della Direzione durano un numero limitato di ore, qualunque sia l’importanza dell’argomento all’ordine del giorno. Proprio perché si tratta di un rito, di una cerimonia, non ci sarebbe motivo di allungare il brodo. Spiace che gli organi d’informazione non abbiano ancora ben compreso lo spirito dei tempi nuovi: invece di riportare con troppa liberalità anche le opinioni dissenzienti, dovrebbero abituarsi a riservare l’ottanta per cento dello spazio informativo agli argomenti della maggioranza del partito.

A guardare le cose dall’esterno, si colgono spunti di umorismo involontario. Consideriamo, ad esempio, il progetto di riforme costituzionali. Anche qui l’opinione pubblica viene sollecitata a trovare intollerabile che in Parlamento si parli di modifiche della Costituzione dai tempi della Commissione Bozzi, nel 1983. Da più di trent’anni si fanno soltanto chiacchiere! Affermano i renziani, con un tono di voce che lo sdegno rende tremante. Al riguardo, sarebbe bene ricordare che, purtroppo, la nostra Costituzione non è più quella entrata in vigore nel 1948. Sono state approvate modifiche molto rilevanti, come nel caso della riforma che ha riguardato il Titolo quinto della Parte Seconda (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) e ne paghiamo amaramente le conseguenze, per i danni che ha comportato una malintesa concezione del federalismo. Carità di Patria induce, poi, a stendere un velo pietoso sulla legge costituzionale 23 gennaio 2001, n. 1 (cosiddetta legge Tremaglia), in attuazione della quale l’intero pianeta è stato ripartito in circoscrizioni elettorali, in modo da esprimere dodici deputati e sei senatori che concorrano a far parte delle due Camere del Parlamento italiano.

Se qualcuno si prendesse il disturbo di leggere attentamente il testo originario del disegno di legge costituzionale presentato l’8 aprile 2014 dal Governo (a firma del Presidente del Consiglio, Atti Senato n. 1429), scoprirebbe che la proposta di modifica del Senato partorita dal duo Renzi/Boschi era quanto di più bizzarro e cervellotico si potesse pensare. Altro che decisioni ormai mature, per il lungo tempo passato a studiare le questioni! Mai e poi mai Bozzi, con l’autorevolezza che gli veniva dalla sua barba bianca e dall’essere stato membro dell’Assemblea Costituente, avrebbe potuto concepire che la Regione Lombardia, con una popolazione legale di oltre nove milioni e settecentomila abitanti, esprimesse lo stesso numero di senatori del Molise e della Valle d’Aosta; e addirittura un numero di senatori inferiore rispetto a quelli spettanti alla Regione Trentino – Alto Adige, avvantaggiata dalla somma dei senatori separatamente spettanti alle due Province autonome di Trento e Bolzano. Mai e poi mai un giurista ed uomo di buon senso, quale fu Bozzi, avrebbe previsto che la carica di senatore spettasse automaticamente ai Presidenti regionali ed ai Sindaci dei Comuni capoluogo di Regione, quasi si trattasse di un titolo onorifico, di una medaglietta da esporre sulla giacca. Si dirà che l’iter parlamentare, in prima lettura del Senato, è servito a correggere parte di quelle stramberie. Quando un provvedimento nasce scriteriato, gli aggiustamenti che si possono introdurre sono, tuttavia, sempre relativi. Resta, comunque, la responsabilità politica di aver formulato proposte di quel tenore, con un atto formale (un disegno di legge d’iniziativa governativa), che ha coinvolto l’intero Consiglio dei Ministri. Resta la dimostrazione lampante di un’improvvisazione che non si arresta nemmeno di fronte alla Costituzione della Repubblica.

L’improvvisazione ci riporta alla politica economica ed a quel disegno di legge di stabilità che, stando alle dichiarazioni del Governo, dovrebbe abbassare sensibilmente la pressione fiscale e far sognare gli imprenditori. Le coperture finanziarie di cui finora gli organi d’informazione ci hanno dato notizia appaiono incerte e ballerine; ma, com’è noto, la vigente legge di contabilità e finanza pubblica, modificata proprio per rendere più cogenti i vincoli derivanti dal Patto di stabilità e crescita nell’ambito dell’Unione Europea, prevede necessariamente “clausole di salvaguardia” riferite ai principali impegni di spesa. Clausole che scattano in automatico, laddove si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni. Di conseguenza, alla fine, in un modo o nell’altro, tutti i provvedimenti che comportano nuove o maggiori spese, o diminuzioni di entrate, saranno coperti. Il punto è che il dibattito s’incentra su ciò che oggi si vede; mentre c’è pochissima trasparenza su ciò che succederà quando sarà evidente che le previsioni non possono essere rispettate.

Tra lo Stato centrale, lo Stato “apparato” per intenderci, e le Istituzioni regionali e locali ci dovrebbe essere un rapporto di leale collaborazione, sempre affermato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. Alcune entrate dovrebbero essere di esclusiva spettanza delle Regioni, altre di esclusiva spettanza dei Comuni, in modo da consentire ad ogni Ente di assolvere i propri compiti di istituto. I compiti fondamentali, s’intende, perché, in tempi di crisi economica generalizzata, nessuno può consentirsi di scialare. Tali entrate delle Istituzioni regionali e locali dovrebbero essere “certe” e stabili nel tempo; nel senso che nessun Governo nazionale potrebbe legittimamente metterle in discussione.

In Italia, invece, è invalsa la prassi che i Governi nazionali pensano di finanziarsi riducendo progressivamente le risorse finanziarie prima destinate a Regioni e Comuni. Addirittura, si contrabbandano provvedimenti virtuosi di riduzione della pressione fiscale in ambito nazionale, quando è inevitabile che ciò comporterà quasi automaticamente aumenti dei tributi regionali e locali.

Ricordate l’ICI e l’IMU? Oggi l’IMU si è sdoppiata: continua ad esistere come “imposta municipale propria per gli altri fabbricati”, ma è stata affiancata dalla TASI (tributo per i servizi indivisibili sull’abitazione principale). In cosa consistano questi servizi indivisibili non è chiaro, posto che si continua a pagare la tassa (sempre comunale) sui rifiuti urbani. Inoltre, Regioni e Comuni che abbiano i propri conti pubblici non a posto, possono reperire risorse aumentando le addizionali all’IRPEF.

I tanti, inutili, discorsi sul federalismo fiscale dovrebbero finalmente lasciare il posto ad un accordo complessivo tra Stato, Regioni ed Enti locali, in cui sia chiaro e certo come ciascun livello di governo si finanzia e continuerà a finanziarsi in futuro. Accordo sottoscritto solennemente, di fonte ai cittadini. Questo è il minimo che si possa chiedere, dal punto di vista dell’esigenza di buona amministrazione; anche affinché ciascun decisore sia veramente responsabilizzato nel proprio ambito.

Oggi, invece, il Governo Renzi non sopporta critiche da parte degli Organismi rappresentativi delle Regioni e dei Comuni. Così come mal sopporta le critiche dei Sindacati dei lavoratori.

I conservatori si spellano le mani nell’applaudire ogni parola tagliente pronunciata da Renzi e dai renziani contro la CGIL. Dimenticano altri tempi in cui in Italia l’accordo con i Sindacati fu richiesto (anche da Ugo La Malfa, che non era propriamente un bolscevico); dimenticano altre esperienze europee (la Germania, in primo luogo) in cui l’intesa con i Sindacati continua ad essere ricercata per governare le dinamiche economiche, tanto più in situazioni di crisi.

Questo Governo dice di non voler trattare su alcunchè. Ascolta, brevemente perché il tempo è prezioso, e poi si limita a comunicare le proprie determinazioni alle Parti sociali.

Ieri, 29 ottobre 2014, operai dell’Ast (Acciai speciali di Terni) manifestavano a Roma. Scrive Dario Di Vico, giornalista del “Corriere della Sera“, che lo stabilimento di Terni «è considerato eccellente per gli standard del settore». Le difficoltà non nascono da ragioni produttive, ma da problemi giuridici. C’è una pronuncia dell’Antitrust a livello dell’Unione Europea, che ha impedito la vendita dello stabilimento ad un gruppo finlandese che era pronto a comprarlo. Ciò significa che, mentre ci sono potenze siderurgiche asiatiche che aumentano la propria presenza nel mercato internazionale senza porsi problemi di concentrazione, in Europa si continuano ad elevare altari al dio della concorrenza. Soltanto che questa concorrenza è tutta a favore dell’industria tedesca. Il gruppo tedesco Thyssen, precedente ed attuale proprietario, si libera volentieri di Terni, affinché restino in vita stabilimenti in Germania. Il gruppo finlandese, che avrebbe potuto dare una prospettiva di sviluppo, non può farlo. La conclusione: che le attività produttive e gli operai del nostro Paese vadano pure in malora. Ed il Governo italiano che fa? Quali misure “decisioniste” ha messo in campo? In che modo sta cambiando verso all’Europa?

Le prime misure certe sono state le manganellate che la nostra polizia ha generosamente distribuito agli operai dell’Ast ed ai sindacalisti della Fiom che li accompagnavano. Anche i poliziotti sono lavoratori, che svolgono un lavoro difficile a servizio dello Stato, ossia della collettività. Lavoro pure ingrato, visto che sono malpagati. Non tutti, fra le Forze dell’Ordine, sono però innocenti. Tra funzionari e dirigenti serpeggia uno spiritello fascistoide che, appena può, si manifesta. Basta con gli scioperi. Basta con i disordini. Basta con i sindacalisti. Basta con i “rossi”. Del resto, questo spiritello fascistoide odia naturalmente la democrazia, che si assume parolaia e inconcludente. Odia il Parlamento, che appunto fu addomesticato dalla Buonanima negli anni Venti del secolo scorso. Se c’è un governo sicuramente democratico che tiene ben strette le briglie, i fascistoidi in divisa devono stare molto attenti a ciò che fanno. Altrimenti, si possono verificare pestaggi, come quello che avvenne nella Scuola Diaz a Genova nel 2001.

La nostra conclusione non è l’invito a Renzi a meditare. Sarebbe inutile, perché forse non ha gli strumenti critici per farlo. Sono gli Italiani che dovrebbero meditare. Soprattutto quelli che dicono di riconoscersi nelle ragioni della Democrazia liberale e nel ruolo di un libero Parlamento.

 

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