N.371 – CHE FINE HA FATTO BERTINOTTI?

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(1) Huffington Post <Già il fatto che ci si chieda se il programma di Renzi è di sinistra significa che non c’è più una cosa che si chiamava sinistra>. Fausto Bertinotti in una intervista all’Huffington Post, commenta la figura del nuovo premier e la situazione della sinistra italiana. <Non si compia l’errore di dire che Renzi è uguale a Letta o Monti. Renzi pone una sfida nuova. Di fronte a questo, o hai un armamentario critico di politica economica oppure non esisti. E infatti la sinistra non esiste, mi pare… Renzi fa come ha fatto Blair dopo la Thatcher… Mette in campo la prima proposta italiana di social-liberismo, che però non risponde alla questione della disoccupazione e della precarietà. Porta il post-moderno in politica. Si muove come un surfista, in economia come in politica, sta sull’onda. Stravince, è egemone perché nel centrosinistra non c’è alternativa a lui, non c’è un’alternativa di politica economica… Lui pensa secondo il senso comune. Anzi, è la personificazione del senso comune>. Per l’ex segretario di Rifondazione <l’operazione di Renzi merita molta attenzione. E bisogna evitare di compiere l’errore di dire: ma è la solita cosa, non ci sono differenze rispetto al passato… Dire questo, è speculare al dire che Renzi è di sinistra. Vorrei soffermarmi sulla comunicazione di Renzi: quel tipo di comunicazione è un elemento costitutivo del fenomeno. Non è trascurabile, non è un orpello. Renzi determina anche uno slittamento ulteriore verso una politica neo-autoritaria, che abbiamo già visto all’opera con lo svuotamento del Parlamento in nome della governabilità e lo svuotamento del Governo in nome della Troika. Lui ci aggiunge un altro tocco. E cioè che al governo non è richiesto che faccia disegni di legge o decreti, ma che faccia annunci. Il che però non è meno importante, ma è un modo attraverso il quale l’intero processo legislativo parlamentare viene vanificato. E’ un nuovo metodo, più simile ad una modalità di partito che alla gestione di un Governo. È un fenomeno postmoderno. Possiamo dire che Renzi porta completamente il postmoderno sulla scia della politica e chiude non solo con la storia della sinistra del 900 ma anche con il moderno della politica democratica rappresentata dalla centralità del Parlamento>.

(2) Il fatto Quotidiano <Per tutta la vita abbiamo pensato che il nostro obiettivo fosse fare la rivoluzione. E s’è visto dove siamo finiti>. È un Fausto Bertinotti ormai rassegnato quello che si fa intervistare dal Fatto Quotidiano, per ricordare un passato politico che ha fatto il suo corso, <un mondo concluso>. <Parlo da vinto, da commentatore> dice l’ex leader di Rifondazione Comunista, che guardando al passato fa autocritica. <Pensavo che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, le feste a cui ho partecipato potessero immunizzarmi> Non sono bastate invece a salvarlo dalle critiche per il suo presenzialismo in televisione e nei salotti romani. Ora lo ammette: <Potevano essere scambiati per commistione con un ceto simile alla casta>. Delle idee di una vita è rimasto poco. <È morta la sinistra. Non dico il comunismo, ma il socialismo sembra scomparso, in un panorama politico che definisce della post democrazia, in un Paese guidato da un Pd e un leader con tentazioni autoritarie e una luccicante venatura neo-bonapartista>. Restano fuori i barbari. Bertinotti è sollevato che in Italia i barbari sostengano il Movimento 5 Stelle: <In Francia peggio, votano Le Pen>.

E’ finita la sinistra?

(Intervista a Giuseppe Berta, di Carlo Di Foggia, Il Fatto Quotidiano) <La sinistra? Guarda a destra. Ed è finita. Il cambiamento è epocale. Immaginiamo l’articolo 18 come un perno: lo si usa per rivoltare la sinistra in qualcosa di diverso, non di matrice socialista e lungo il solco tracciato dalle sinistre socialdemocratiche europee>. Oggi, per Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano, le sinistre socialdemocratiche europee sono agonizzanti: <Se Matteo Renzi vede in Tony Blair il suo mentore, allora è normale che cerchi di spezzare il legame con i sindacati: lo hanno fatto i laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi. I sindacati inglesi non si sono ancora ripresi e vivono delle disgrazie altrui, i secondi fanno parte di una coalizione su cui non riescono a incidere, a parte il salario minimo, lo strumento che dovrebbe far salire gli stipendi a mini jobs dei creati dal socialdemocratico Gerhard Schröder>.

Il premier, sull’articolo 18, rischia di spaccare il suo partito. <Nessuno pensa che la soppressione dell’art. 18, in una fase recessiva, generi posti di lavoro>.  A cosa serve allora? <Ci si rivolge all’Europa, ma soprattutto a un pubblico più ampio: quello che apprezza la politica antisindacale>.  L’elettorato di destra? <Il ceto medio, che è poi quello che si deve sobbarcare il peso maggiore delle tutele sociali. Così si aumenta la base elettorale: è la sfida che hanno affrontato i partiti socialisti europei dopo la lunga fase degli anni ‘80 lontani dal governo>. Con quali risultati?  <La fine della sinistra come la conoscevamo. Ovvero che difendeva il welfare state e l’economia mista: la compresenza di due poli – il pubblico e il privato – come motori dell’economia. Un declino iniziato negli anni ‘80 con le idee di Margareth Thatcher e proseguito con Blair e Schröder>.

Tutti contro i sindacati?  <Blair non fece nulla per sanare gli squilibri creati dalla Lady di Ferro, Schröder fece di peggio: affidò le riforme del mercato del lavoro a Peter Hartz, capo del personale della Volkswagen, poi condannato per corruzione dei rappresen-tanti sindacali>. Perché il welfare state è rimesso in discussione? < Perché costa, tanto. Perfino i partiti socialdemocratici scandinavi si sono indeboliti difendendolo. Nel ’76, prima della Thatcher, dopo 40 anni al governo, la socialdemocrazia svedese perse le elezioni: era il segno dell’insofferenza verso una forma di tutela che comporta una pressione fiscale elevata, ma è anche l’unica via per ridurre le disuguaglianze. La sinistra è in disarmo. La svolta a favore della globalizzazione, se all’inizio li ha riportati al governo, li ha poi svuotati della loro stessa natura. Ora ne pagano le conseguenze: i socialisti francesi sono al minimo storico. Zero idee e mancanza di coraggio: hanno perfino accolto l’euro senza porsi il problema delle conseguenze>.

Colpa della globalizzazione? <Vi hanno aderito la convinzione che si trattasse di un moltiplicatore di ricchezza. Ma la globalizzazione riduce l’autonomia degli Stati – consentendo alla grande industria di trasferire gli investimenti dove più conviene – mentre la sinistra ha sempre fatto perno sullo Stato-Nazione. Renzi ha in mente questo piano? <Segue la stessa logica>.  Ma una riforma del lavoro può essere utile. < Certo, ma c’è un paradosso: si riforma il mercato del lavoro senza sapere qual è il modello economico che vogliamo adottare, e con una gigantesca incertezza sugli ammortizzatori sociali. In Europa si vuole tutelare il lavoratore sul mercato e non all’interno del luogo di lavoro. Lo Statuto dei Lavoratori fa l’esatto opposto, perché è nato in un contesto molto diverso. Nessuno dei due è giusto o sbagliato a prescindere, ma bisogna saper scegliere. Invece si attacca il sindacato.  Che però si è dimenticato di milioni di lavoratori precari.  <Ha colpe gigantesche, ma i problemi sono altri: abbiamo perso un quarto dell’apparato produttivo.  Ora si parla di “modello tedesco”. <Lì si è fatto perno sulla potenza di fuoco di alcune grandi imprese, con buoni ammortizzatori sociali. Ma si rischia l’implosione. Se lei fa un giro a Berlino si accorge che i supermercati sono vuoti e la vita costa meno che a Torino: significa che la domanda interna è depressa>.

(Un commento di Claudio Bellavita, Circolo Rosselli, all’intervista) Di questa analisi ci sono due possibili letture: una è che si debba trovare una sinistra che stia a sinistra (del Pd), e consista di una minoranza sempre più ristretta, guidata da vecchi personaggi che non hanno capito bene cosa è successo e sta succedendo nel mondo e portano avanti le loro battaglie di principio e di schieramento, avviandosi sulla strada dei comunisti spagnoli e francesi sepolti nell’oblio. Oppure, dal momento che con la sinistra oggi in Occidente non si fa maggioranza, vedere quale compromesso è necessario per guidare il paese. Alla fine della fiera, è sempre il più che centenario dilemma tra chi dice che “poco è meglio di niente” e chi fieramente ribatte che “niente è meglio di poco”, perchè così spera che cominci la rivoluzione..

Il ritorno della Balena bianca

(Massimo Gramellini, La Stampa) In Italia è rimasto un solo partito, e non è di sinistra. Si chiama Pd, ma è la versione moderna, senza tessere né sacrestie, della Democrazia cristiana, la balena interclassista che tutti apertamente criticavano, e di nascosto votavano. Il processo ha raggiunto il suo culmine questa settimana con la sconfitta degli ultimi eredi del Pci sull’articolo 18. Renzi ha celebrate il proprio trionfo con una scelta significativa, andando a pontificare negli unici talk shaw che parlano all’ex popolo berlusconiano, quelli capitananti da Porro e Del Debbio. Con la spregiudicatezza tipica delle persone cresciute in un ambiente familiare sereno, e quindi molto sicure di sé, l’annunciatore fiorentino sta disintegrando i tabù che hanno paralizzato per decenni i suoi predecessori comunisti e pidiessini. Renzi ha messo da parte il timore di avere nemici a sinistra e di mettersi contro la Cgil, ma soprattutto l’imbarazzo nel chiedere voti alla base sociale dell’incantatore di Arcore: liberi professionisti, commercianti, piccoli imprenditori e disoccupati, che secondo Il Sole 24 Ore hanno cambiato verso alle elezioni europee, dirottando per la prima volta i loro consensi sul partito che finora gli aveva procurato solo attacchi di orticaria.

La realtà è che oggi chiunque, da Passera a Della Valle, pensi di entrare in politica per rifondare il centrodestra deve prendere atto che al momento non esiste un bacino di voti disponibile. Renzi ha fatto il pieno, lasciando scoperta solo la zona riservata ai lepenisti italiani magistralmente interpretati dall’altro Matteo, il becero ma efficacissimo Salvini (che raccoglie l’8% secondo i sondaggi). Il resto è un mondo finito e svuotato di consensi, che sopravvive sui giornali per vecchi automatismi, che ancora inducono i cronisti a interessarsi alle ultime convulsioni nelle file di Berlusconi. I voti di Alfano e di Monti sono già tutti in pancia al Pd. E quei pochi che restano a Silvio, finiranno in parti uguali a Matteo uno e Matteo due. L’unica terra di conquista elettorale è dunque quella che un tempo avremmo chiamato la Sinistra. Sono i giovani e i precari attratti da Grillo, i pensionati, i nostalgici dello Stato sociale e in genere gli oppositori di un sistema capitalistico che, per un processo apparentemente ingovernabile, sta privilegiando le rendite, disintegrando il ceto medio e creando sacche sempre più ampie di povertà.

Il pigliatutto di Palazzo Chigi, naturalmente, si considera di sinistra anche lui. Anticomunista, ma di sinistra. Solo che la sua non è la sinistra europea e statalista dei Palme e dei Mitterrand, ma quella anglosassone e meritocratica dei Clinton e dei Blair. Per chi non vi si riconosce, e vuole agire, rimarrebbe in teoria uno spazio persino più ampio di quello occupato dagli emuli del greco Tsipras. Manca però, appunto, uno Tsipras. Cioè un leader in grado di indicare un modello sociale alternativo ma praticabile, e di perseguirlo con coerenza. Difficile possa esserlo Civati e meno che mai possono esserlo Bersani e D’Alema, con il sostegno delle truppe ormai poche e brizzolate della Camusso. Se i grandi vecchi non se ne vanno dal Pd, non è certo per fedeltà a un partito che non sarà mai più il loro, ma perché sanno che fuori dal Pd si condannerebbero all’insignificanza di un Gianfranco Fini. Nella settimana in cui comincia ufficialmente l’era del partito unico, bisogna riconoscere che l’Antirenzi potrà nascere solo dentro il nuovo Pd, così come i rivali dei leader democristiani venivano prodotti in serie dalla stessa Dc. Renzi lo sa talmente bene che sta provvedendo a ucciderli tutti nella culla. Resta da vedere se, come accade sempre in politica, prima o poi qualcuno riuscirà a sopravvivergli e a fargli la pelle.

Contestazioni a Renzi

(Federico Geremicca, La Stampa) Le aspre battaglie parlamentari ingaggiate in questi primi 200 giorni di governo (riforma elettorale, abolizione del Senato elettivo e Jobs act) si sono concluse, di fatto, nello stesso identico modo: una netta vittoria di Renzi e una secca sconfitta degli oppositori. E quel che più impressiona – stando a raffiche di sondaggi – è che si tratta di una sconfitta non solo nelle aule parlamentari ma anche nel giudizio nell’opinione pubblica. Il passaggio dal cacciavite alla ruspa, insomma, continua a rivelarsi vincente: e soprattutto a piacere ai cittadini/elettori. Così, dopo le secche e mortificanti sconfitte subite, per gli oppositori del premier è forse venuto il tempo di interrogarsi se gli argomenti, le contestazioni e i toni messi in campo contro Renzi siano quelli giusti per avversare obiettivi e stili di direzione (del partito e del governo) ritenuti sbagliati e perfino dannosi. Ed è evidente che il problema – per gli effetti paradossali che sta determinando – riguarda prima di tutto la minoranza Pd e la Cgil di Susanna Camusso.

Cosa c’è di sbagliato – o di non efficace – nella linea di opposizione fin qui seguita? Essa sconta, intanto, una sorta di vizio d’origine: la sottovalutazione del carattere e dello stile del premier, e l’idea – conseguente – che Renzi sia condizionabile con gli argomenti e i modi tradizionali di fare opposizione. Errore. La guerriglia interna al Pd, la minaccia del non-voto in Parlamento o le accuse a Renzi di tradire la causa della sinistra, non hanno funzionato e non funzioneranno: specie se avanzate da un ceto politico che Renzi può liquidare con un semplice (anche se superficiale finché si vuole) <dov’eravate voi mentre il Paese affondava?> Un rinnovamento, insomma, appare indispensabile anche tra le file degli oppositori del premier: rinnovamento di uomini e di argomenti, che non possono più essere (perché inefficaci) quelli del passato. Che senso ha, per fare un esempio, l’accusa mossa a Renzi da Susanna Camusso, che ha evocato il fantasma della Thatcher: una signora defunta che ha smesso di governare quando l’ex sindaco di Firenze aveva 15 anni e – come annota Della Valle – <cantava canzoni vicino ai fuocherelli dei boy scout?>

Di fronte allo stato in cui versa il Paese e all’esasperazione di un’opinione pubblica che non ha dimenticato volti e protagonisti del declino italiano, opporsi in questo modo a Renzi equivale a fargli un regalo. <Ogni volta che parla D’Alema – ripete infatti il premier – guadagno un punto in percentuale…> Andrebbe aggiunto: non solo perché parla D’Alema, ma per gli argomenti – spesso pretestuosi, tortuosi, poco credibili e perfino antipopolari – che vengono messi in campo. A Renzi andrebbe invece chiesto dov’è finita la bella politica promessa, quando poi tenta di imporre alla maniera solita (cioè senza confronti) candidature al Csm e alla Corte Costituzionale in alcuni casi inaccettabili. O che fine abbia fatto l’annunciata guerra agli sprechi di Stato, se poi in vista della manovra ha accantonato Cottarelli e il suo piano (per altro senza spiegazioni) per affidarsi a presunti tagli di antica e fallimentare memoria. O cosa sia rimasto, infine, del tono di sfida col quale avrebbe dovuto condurre, secondo le promesse, il suo semestre di guida europea. Contro Renzi, insomma, ogni ideologismo si rivela inefficace, ogni richiamo al timing promesso si risolve in un boomerang (che avete fatto voi in vent’anni?) e a nulla servono richiami al bon ton politico, quando questo ha prodotto i disastri che oggi osserviamo. Occorrerebbe uno sforzo di modernità nella critica (negli uomini e negli argomenti) ed un rinnovamento della proposta riformista. Cose più difficili, certo, che urlare <Renzi è di destra>: ma cose che, pure, dovrebbero essere pane quotidiano per una sinistra al passo coi cambiamenti e riformatrice davvero.

Fare le riforme vuol dire ridistribuire i redditi

(Mario Deaglio, La Stampa) <Siete bravi e simpatici, ma dovete fare le riforme>, <Mi raccomando, fate le riforme>, <Va tutto bene, ma avanti con le riforme>. Banchieri centrali, esponenti economici, responsabili di centri dì ricerca internazionali, da anni ripetono come un mantra tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto di recente il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere “strutturali” (non una tantum) e devono riguardare non solo l’Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste riforme che l’Italia e il resto d’Europa dovrebbero fare? L’espressione fare le riforme è una foglia di fico per nascondere qualcosa di politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi.

Negli ultimi vent’anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata dal lavoro alle rendite. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava di recente il tedesco Welt am Sonntag. Negli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli utili delle società non sono mai stati così alti. E mai così alto negli ultimi decenni, è stato l’indice Gini (che misura la disuguaglianza dei redditi), che ha visto l’Italia di diventare uno dei Paesi avanzati con maggior disuguaglianza, solo di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile, e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come dimostrano le norme per l’ingresso alle varie “libere” professioni.

Fare le riforme significa quindi ridistribuire i redditi in modo più equo. Le vie sono molteplici e tocca ai politici dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono attuare. Fare le riforme implica però non tanto – o non solo – la riduzione del carico fiscale, come chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei costi “esterni”. Occorre ripensare radicalmente la burocrazia organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre così i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, “tagliare i costi” lasciando invariata la struttura, come hanno latto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. E’ necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti

A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione degli incarichi di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l’invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l’accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare. Dietro il generico “fare le riforme” si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi – Portogallo, Grecia, Irlanda – non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell’attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta troika (composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles) una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d’anni d’inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L’Italia non è nella loro condizione ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell’economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l’altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

Servi della gleba

(Gian Arturo Ferrari, Corriere) Da un bel pezzo avevamo abbandonato la confortante certezza – una illusione – che la storia camminasse speditamente sulla via del progresso. Con ostacoli, certo, con arresti, ma comunque senza invertire mai il senso di marcia, senza regredire. In avanti, sempre. Alcuni segni però ci avevano messo sull’avviso. Ad esempio il vigoroso ritorno del principio dinastico, cioè della successione al potere all’interno del medesimo gruppo familiare. Nelle democrazie – negli Stati Uniti d’America, in India – ma anche nei regimi comunisti – in Corea del Nord, nello Stato indiano del Kerala – formalmente dittature del proletariato. Ma pur così disillusi, fino al ritorno della servitù della gleba non ci saremmo mai spinti. E invece il Financial Times ieri riportava un’intervista a Sergei Pugachev, oligarca russo in esilio a Londra, il quale testualmente dichiarava: <Oggi in Russia non c’è proprietà privata. Ci sono solo servi che appartengono a Putin>. Dove servi significa in russo servi della gleba, non domestici, ma oggetti, come nei romanzi di Tolstoj, dove più propriamente si misuravano in “anime”. Pugachev, di suo, non dev’essere un fiorellino di campo. È un cinquantunenne barbuto che a 29 anni ha fondato una banca e a 45 ha accumulato una fortuna stimata di due miliardi di dollari. Il presidente russo Vladimir Putin lo accusa di aver portato in Svizzera 700 milioni della banca. Lui dice che sono suoi e che gli servivano per certi commerci. Sta di fatto che Putin l’ha fatto fuori, come poi lo scorso settembre ha spossessato di Bashneft, gigante del petrolio, e messo in galera l’oligarca Vladimir Yevtushenkov. Procedure e metodi ben noti alla storia europea, praticati con successo da Luigi XIV e Pietro il Grande fino a Stalin, ossia ad ogni instaurazione del potere assoluto e dell’assolutismo come ideologia. Quel che stupisce in questa stagione di regresso è la subitaneità del crollo. L’edificio illuminista fondato sull’universalità dei valori e dei diritti, sugli sforzi di miglioramento, rovina intorno a noi. Ma, forse, preferiamo non vedere.

Password a prova di hacker

(Enrico Franceschini, Repubblica) Ne abbiamo ormai così tante, di password, tra bancomat, posta elettronica, cellulare, Pc, social network e chi più ne ha più ne metta, che dobbiamo trascriverle da qualche parte per non dimenticarle. Ma le password tradizionali, composte di lettere e cifre, anche se le custodiamo soltanto nella nostra memoria, possono essere facilmente scoperte e rubate dai pirati informatici in grado di entrare nei nostri computer e spesso anche nel nostro portafoglio o conto bancario. Perciò da tempo le maggiori aziende digitali sperimentavano nuovi sistemi di accesso, considerati più sicuri. Oggi uno studioso sembra avere escogitato una password assolutamente impenetrabile: le nostre lacrime. Stephen Mason, un oftalmologo australiano, ha scoperto che uno scanner delle lacrime di una persona produce il primo pin biometrico al mondo capace di resistere a qualsiasi tentativo di scasso. Lo scienziato ha concentrato le sue ricerche sulla cornea piuttosto che sull’iride (la quale costituisce invece la norma nelle scansioni), perché nemmeno i più abili criminali cibernetici sarebbero in grado di copiare la maniera del tutto unica in cui le lacrime cambiano i nostri occhi. Uno scanner può distinguere un individuo da un altro perché ogni cornea ha una mappa differente. Ma se un hacker volesse rubare l’immagine dall’ultima volta che qualcuno l’ha usata, per poi usarla di nuovo fraudolentemente per accedere a un servizio e rubarne il contenuto, l’accesso verrebbe negato perché la mappa della cornea cambia leggermente in continuazione e dunque è diversa ogni volta che viene scannerizzata. La superficie della cornea è bagnata di lacrime, per cui i dati di identificazione si modificano di continuo da un momento all’altro. Se una tecnologia di questo genere venisse applicata a telefonini, computer è bancomat, i pirati informatici incontrerebbero quindi un ostacolo apparentemente invalicabile. Le password sono il punto debole dei network digitali di tutto il Pianeta, la ragione principale per cui i nostri account online vengono penetrati e derubati di informazioni o di denaro. È un business criminale in espansione costante e una seria minaccia alla sicurezza mondiale: basti pensare che cosa accadrebbe se questi pirati digitali azzerassero le banche dati del credito internazionale o, peggio ancora, penetrassero nei sistemi di difesa di centrali ed armi nucleari. Proprio la crescita del cybercrimine ha messo in moto negli ultimi anni uno sforzo globale per cercare modi migliori di verificare le identità degli utenti e i codici di accesso informatici. È una caccia alla chiave o alla combinazione che non si possono copiare. Adesso le lacrime potrebbero offrire a privati, governi e aziende un codice personalizzato a prova di qualsiasi ladro del web.

Eindhoven

(Lettera a Corrado Augias su “Repubblica”) Gentile Augias, alcuni giorni fa sono stato a Eindhoven, dove uno studente di cui ero stato relatore di tesi magistrale ha discusso la tesi di dottorato. Aveva imparato a Roma una tecnica con cui si ottiene una soluzione di smistamento delle merci al porto di Rotterdam. Il rettore dell’università di Eindhoven si è complimentato con la mia università per la sua eccellente preparazione di base. Rimarrà in Olanda, ha già un posto a Groningen. Sull’aereo che mi ha riportato a Roma meditavo. L’università italiana è capace di fornire agli studenti più bravi e determinati una preparazione che in altri Paesi è possibile applicare al mondo reale e che l’industria è interessata a finanziare. Mi sono anche posto questa domanda: l’Olanda è classificata con la tripla A e dunque finanzia la ricerca applicata, oppure ha la tripla A perché finanzia la ricerca applicata? Ardua sentenza. Cordiali saluti. Benedetto Scoppola, Università di Tor Vergata (Roma)

Citazione

Sono a favore degli omosessuali anche perché così c’è in giro meno competizione (L’Innominabile)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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