N. 368 – DE BORTOLI VS RENZI

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Il direttore del “Corriere della Sera”, Ferruccio de Bortoli, apre con un articolo di fondo il nuovo formato e la nuova veste grafica del “Corriere” di oggi: è chiaramente un articolo inteso a far discutere e attirare l’attenzione sul suo giornale, tanto è vero che è già diventato il riferimento dei commentatori di politica nella mattinata. Tuttavia molte affermazioni di de Bortoli sono condivisibili. Questo non impedirà al pensiero cristallizzato di una parte dei fautori di Renzi di rimanere tale, così come non mancherà di alimentare la fiamma della sinistra minoritaria antirenziana. Quanto a Lega e 5stelle, mi sembra che stiano diventando politicamente poco rilevanti.

(Ferruccio de Bortoli, Corriere) Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante. Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso anche del più fedele degli alleati (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.

L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana cade facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica, se è di sostanza, è utile, ma se è solo cosmesi, è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra.

Discussione sull’articolo 18

Nel maremoto di opinioni e litigi sull’articolo 18, ne ho trovato un commento breve e, a mio parere, assai equilibrato…

(Dario Allamano, Circolo Rosselli) La discussione sull’articolo 18 stimola in me vecchi ricordi, diciamo che mi ringiovanisce di trent’anni, mi riporta ad una discussione che è passata alla storia con il nome di decreto di San Valentino. La meccanica è la stessa, una provocazione politica su un tema marginale (allora 4 punti di scala mobile, oggi la pseudo tutela dell’art 18, che, come si sa, tutela solo i lavoratori delle aziende sopra i 15 dipendenti e con contratto a tempo indeterminato) sulla quale la sinistra attacca a testa bassa senza rendersi conto che si è infilata in un cul de sac senza uscite, proprio perché è un tema che ormai interessa un numero sempre più ristretto di cittadini italiani. Sarebbe più serio ed intelligente invece affrontare il tema da un’altra angolazione: è possibile uno scambio tra una garanzia marginale, che però viene vissuta da destra come un blocco alle assunzioni (cazzata immane ma tant’è) con una tutela diffusa che magari parte da un livello più basso ma con una tendenza a divenire stabile e con un impegno – questo sì importante – a riportare all’ordine del giorno una seria politica industriale, unica possibilità di uscire da questa crisi infinita? E’ possibile ripartire da una nuova Programmazione economica, tanto per usare un termine caro a Giorgio Ruffolo ed ai socialisti lombardiani? Il Contratto unico a tutele crescenti non è un’invenzione dell’ultima ora di Renzi, è una proposta di Tito Boeri e degli economisti della voce.info che data ormai da alcuni anni, e, secondo me è una buona soluzione che – se davvero abbinata ad una riduzione dei contratti capestro che hanno contraddistinto in questi vent’anni le varie riforme del lavoro dei vari Governi – potrebbe riaprire dei varchi per una politica occupazionale volta a favorire l’ingresso dei giovani. Resto però fermo su una mia convinzione: il lavoro non si crea per decreto e neppure con un disegno di legge: il fallimento delle leggi “Treu” e “Biagi” (anche se lui poveretto non ne ha colpa) lo conferma, i posti di lavoro stabili e duraturi si generano con una politica che, a partire dalla ricerca applicata, scende per li rami sino ad una nuova politica industriale. In questo campo l’Italia è in ritardo di vent’anni, ha perso tutti i treni che sono passati, dall’informatica, all’ambiente, all’energia, inseguendo chimere che hanno arricchito altri Stati.

Matteo Salvini porta sfiga

(Aldo Grasso, Corriere) L’ex primo ministro scozzese Alex Salmond è convinto che la causa principale della sconfitta degli indipendentisti della sua regione sia dovuta alla visita in Scozia del lumbard Matteo Salvini, uno che non ne ha mai azzeccata una. Com’è noto, una delegazione di lumbard guidata da Salvini è andata in loco a tifare per la vittoria degli yes. Il consigliere regionale lombardo Angelo Ciocca ha fatto un po’ di confusione: prima ha indirizzato i suoi verso Amburgo, poi verso Strasburgo e solo al terzo tentativo ha capito che si trattava di Edimburgo. Quando il leader dello Scottish National Party ha visto Salvini indossare una maglietta che univa la croce di San Giorgio con la bandiera scozzese, ha fatto gli scongiuri. Non sono serviti. Salmond sapeva che Salvini è un perdente di successo o, se volete, un vincente di insuccessi. Sapeva che Salvini è un po’ un parolaio. Adesso Salvini sostiene che l’euro è una moneta criminale ma solo fino a poco tempo fa (2012) le sue idee erano altre: <La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa>. Salmond era al corrente che la Lega non è nemmeno riuscita a formare con Marine Le Pen un gruppo euroscettico al Parlamento Europeo. Che la Padania, a differenza della Scozia, è solo un paese immaginario e che il federalismo, tanto sbandierato, finora è rimasto nel cassetto. Gli era noto persino che Salvini, che tanto tuona contro la casta e parentopoli, ha fatto assumere la sua compagna alla Regione Lombardia e quando era deputato a Bruxelles i suoi assistenti erano Franco e Riccardo Bossi, fratello e primogenito del Senatùr. E poi c’è quel viaggio imbarazzante in Corea del Nord in compagnia di Antonio Razzi: <In Corea tutti i ragazzini fanno sport>. Wow! Oggi è San Matteo e in un momento in cui Matteo è un nome vincente in Italia (Renzi, Don Matteo, Marzotto, Manassero, persino Orfini), l’unico a muoversi come un “trota” è quel vincente di insuccessi che ha fatto la macumba anche alla Scozia.

La curva di Laffer

La curva di Laffer è una curva che mette in relazione l’aliquota di imposta con le entrate fiscali. Fu impiegata da Arthur Laffer, economista della University of Southern California, per convincere l’allora candidato repubblicano alle presidenziali del 1980 a diminuire le imposte dirette. Laffer ipotizzò che esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente, e il gettito diminuisce fino ad azzerarsi.

(Eugenio Occorsio, Repubblica) <Bisogna riconoscere, una volta per tutte, che gli eccessi tributari sono dannosi per l’economia. Non c’è bisogno di ulteriori dimostrazioni: in Europa, e in Italia in particolare, è stato superato ampiamente il livello di equilibrio, il punto oltre il quale se si aumentano le tasse diminuiscono le entrate dello Stato. Si insegue un pareggio di bilancio che non si raggiunge mai e si seminano disoccupazione e malcontento sociale>. Questo dice Arthur Laffer, l’economista di Stanford autore della famosa “curva” che porta il suo nome. <È una parabola: se si aumenta troppo l’imposizione, le entrate fiscali, anziché salire, crollano, le aziende chiudono, si perde la spinta a intraprendere attività economiche>. Sulla base di quest’intuizione, Laffer divenne l’economista di Ronald Reagan. <Avevamo ritmi di crescita cinesi, l’8-9% l’anno. Tutto si è infranto sugli errori – non di Clinton, per il quale ho votato – ma di G.W. Bush: porta personalmente, insieme ad altre, la colpa della crisi del 2008>. Domanda: come risalire verso l’area virtuosa della sua curva? <Primo: pagare meno, ma pagare tutti. In America siamo a livelli scandalosi: Warren Buffett, con le deduzioni e i sotterfugi varati da Bush, paga l’1% del reddito in tasse. E Bill Gates con la sua Fondazione detta la politica in Africa. Lo stesso in Europa: tagliando i benefit ai ricchi si può arrivare a un’aliquota percentuale unica, tutt’al più due come facemmo con Reagan, e il gettito totale aumenta. Poi va ridotto il perimetro delle attività statali. Serve un cambio culturale>. È più sicuro rilanciare le privatizzazioni che puntare su sempre maggiori entrate fiscali? <Troppe tasse riducono la volontà di investire e lavorare. Lo Stato deve garantire autostrade e scuole uscendo da una miriade di attività che a rigore non gli competono, in quanto sarebbero svolte meglio da privati. E deve usare criteri privatistici nelle attività che mantiene: un docente bravo va pagato di più di uno scarso. È importante come si spende il denaro, non solo quanto se ne raccoglie>. Sul lavoro siamo alla ricerca di un modello, che si dice che non deve essere quello americano. È così temibile? <Macché. Fra sussidi e provvidenze, spesso conviene vivere col welfare, smentendo quello che diceva Kennedy: il miglior welfare lo dà uno Stato che ti induce a cercare un lavoro. E vorrei smentire un altro punto: neanche da noi c’è coordinamento fra politica monetaria e fiscale. La Fed ha ecceduto con lo stimolo a spendere: 3700 miliardi di dollari in un anno, una volta e mezzo le entrate fiscali. Mai sentito di un’economia tartassata e prospera insieme. Si sono create bolle di liquidità che scoppieranno presto>.

Gli effetti del rigore alla tedesca

(Andrea Tarquini, Repubblica) In Italia le misure d’austerità imposte dagli imperativi di risanamento dei conti e di salvataggio dell’euro hanno pesantemente aggravato le disuguaglianze sociali e le ingiustizie, e raddoppiato il numero dei poveri: il 12,4 per cento del totale della popolazione. E quanto a inclusione sociale, cioè alla capacità di inserire le persone nella vita sociale e lavorativa normale, il nostro paese è sceso al ventiquattresimo posto su ventotto paesi dell’Unione europea. Dietro di noi soltanto l’Ungheria dell’autoritario nazionalista Viktor Orban, la Romania, la Bulgaria (cioè il più povero dei paesi dell’Unione europea), e la Grecia, stremata dalle draconiane misure di rigore imposte dalla Troika. Lo afferma la Fondazione Bertelsmann, l’influente centro studi legato alla grande azienda editoriale tedesca, nel suo rapporto pubblicato di recente. Gli italiani poveri, cioè costretti a pesanti privazioni materiali – scrive il rapporto – sono quasi raddoppiati dall’inizio della crisi economica, passando dal 6,8 per cento della popolazione nel 2007 al 12,4 nel 2013. Lo studio pone l’Italia, appunto, al poco invidiabile 24mo posto per inclusione sociale. Ai vertici della classifica sono invece paesi del Nord Europa, cioè Svezia, Finlandia e Danimarca. Non solo. L’Italia è al penultimo posto per giustizia intergenerazionale e al primo posto per quota di Neet, ossia i giovani che non lavorano e non studiano. Il rapporto della fondazione Bertelsmann sottolinea che la situazione è in peggioramento nell’intero vecchio continente: <Le rigide politiche di austerità portate avanti durante la crisi, e le riforme strutturali miranti alla stabilizzazione economica e dei conti pubblici, hanno avuto nella maggior parte dei casi effetti negativi sulla giustizia sociale>. Implicita ma durissima condanna del rigore alla tedesca.

Non è Berlino in condizione
di fare la predica

(Federico Fubini, Repubblica) Una settimana fa, la Bundesbank è rimasta sola fra diciotto banche nazionali a votare contro il taglio dei tassi della Banca centrale europea. E questa settimana il governo di Berlino ha fatto sapere che non sosterrà l’altra iniziativa dell’Eurotower, l’acquisto di prestiti delle banche alle imprese per abbassare il costo del debito. I tedeschi (seguiti dai francesi) non offriranno le garanzie che la Bce chiede per incamerare nel proprio bilancio la categoria di credito leggermente meno sicura: quello offerto alle imprese solide nei Paesi fragili, per esempio l’Italia. Questa posizione della Germania è chiara da tempo. I leader e l’opinione pubblica sono refrattari ad accollarsi il rischio del debito di Paesi che, secondo loro, hanno infranto le regole dell’unione monetaria. In più, temono che le scelte della Bce producano prima o poi un’inflazione fuori controllo, anch’essa in violazione al patto in base al quale i tedeschi hanno accettato l’euro.

Un’occhiata ai dati della Banca dei regolamenti internazionali e ai conti finanziari pubblicati da Eurostat permette di ricostruire i fatti in una luce diversa. È noto per esempio che i pacchetti di aiuti versati a Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna hanno soprattutto aiutato anche le banche tedesche, esposte pesantemente verso questi Paesi, a uscire senza danni dal crollo di quelle economie. Secondo la Bri, gli istituti di credito tedeschi avevano sviluppato un’esposizione quasi fuori controllo: al picco, 315 miliardi di dollari in Spagna, 240 miliardi in Irlanda, 51 in Portogallo e 41 in Grecia. Quelle posizioni sono state ridotte a poco, senza che un solo euro andasse perso, solo grazie ai salvataggi europei. E dei circa 300 miliardi versati dai Paesi della zona euro ai quattro colpiti dalla crisi, il 70% del denaro non è venuto da Berlino ma dal resto dell’area. Senza quell’aiuto le banche tedesche avrebbero perso centinaia di miliardi e i contribuenti avrebbero dovuto ricapitalizzarle con salvataggi di Stato.

Di tutto ciò i politici di Berlino parlano poco, così come quelli di Roma hanno dimenticato i loro errori nell’affrontare la crisi. Il risultato è che da entrambe le parti gli elettori non capiscono cosa accade e spostano le responsabilità sempre fuori dai propri confini. È probabilmente per lo stesso motivo che non viene mai citata la contabilità degli interventi della Bce. Nel 2001 l’Eurotower entrò sul mercato per comprare più o meno 100 miliardi di euro di titoli di Stato italiani e così contenere lo spread. Poiché il rendimento allora era del 5% circa, e la Bce tiene quei titoli a scadenza, oggi il guadagno è stato di circa 5 miliardi; di questi, intorno a un miliardo e mezzo spetta ai contribuenti tedeschi, dato che la Bundesbank partecipa al 30% nel capitale della Bce, e stime simili valgono anche per gli interventi su Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Quegli aiuti della Bce vengono vissuti dagli elettori in Germania come una tassa a loro carico, anche se sono stati un affare per il bilancio pubblico di Berlino.

Ancora meno discusso è il tema oggi più urgente: l’interazione fra i rischi di deflazione in Europa e il modo in cui viene gestita in Germania una massa di risparmio delle famiglie da quasi 5.000 miliardi di euro. Su questo fronte gli errori sono evidenti. Il Paese più forte d’Europa ha reagito alla crisi rimpatriando riserve che prima investiva all’estero. La Bri mostra che dal 2008 al 2014 le banche tedesche hanno quasi dimezzato la loro esposizione al resto del mondo, riducendola di duemila miliardi di dollari. Qualcosa di simile devono aver fatto le famiglie e i risultati si vedono. Ai conti finanziari di Eurostat del 2012 (i più recenti), le famiglie tedesche hanno 4.700 miliardi di euro, ma in gran parte sono investiti a rendimento pressoché nullo. Per l’80% sono collocati in depositi bancari, fondi pensione o bond a cedola minima. Meno di un decimo dei risparmi tedeschi va in investimenti produttivi come titoli azionari.

In queste condizioni, le famiglie in Germania non sono in grado di sopportare finanziariamente nessuna forma di inflazione. Neanche minima, neanche normale. Il carovita infatti erode il valore reale dei risparmi, se questi non rendono. E con rendimenti quasi zero sui risparmi, per gli elettori tedeschi un carovita all’obiettivo ufficiale europeo del 2% comporterebbe una perdita di potere d’acquisto in termini reali di quasi 100 miliardi di euro: una sorta di patrimoniale pari al 3% del Pil tedesco ogni anno. Non è dunque difficile capire perché la Bundesbank si oppone alle misure della Bce volte a far salire l’inflazione al 2%, com’è suo dovere. Ma un precetto di base in Germania è che, chi investe male deve perdere i suoi soldi, perché ciò gli insegnerà a non investirli male anche domani. Alle banche tedesche in Spagna o Grecia non è successo: forse è per questo che il resto d’Europa oggi ne paga le conseguenze.

Prima le riforme istituzionali

(Elisabetta Gualmini, La Stampa) Ha fatto bene Matteo Renzi, nel discorso alle Camere, a ribadire l’assoluta priorità delle riforme istituzionali. Sbaglia profondamente, infatti, chi pensa che aver approvato la riforma del Senato in prima lettura sia stata una perdita di tempo e che sarebbe stato meglio fin da subito occuparsi di temi economici. C’è ancora chi ritiene che la nuova legge elettorale possa aspettare. Aspettare cosa, poi? A chi ha la memoria corta è bene ricordare che questa legislatura è nata per fare le riforme istituzionali, dall’accordo informale ma molto chiaro durante il governo Monti (i tecnici avrebbero dovuto occuparsi di economia e il Parlamento delle istituzioni) alla nomina dei saggi di Napolitano, al parte monito dello stesso Napolitano ai partiti che – forse senza aver capito bene – si spellavano le mani per gli applausi; per non parlare degli ultimi 30 anni di promesse non mantenute, discussioni futili, progetti per superare il doppione inutile, caduti nel vuoto.

E non c’è solo la necessità di oliare il processo decisionale. C’è anche quella di ridurre i costi della politica. Il fatto che il Senato non sia più elettivo (insieme alle province) è un primo colpo di scure alle dimensioni del ceto politico e una risposta precisa agli anni violenti dell’antipolitica. Segni, imboli e anticorpi che hanno smantellato la protesta grillina in men che non si dica. Come farà Grillo a sostenere al prossimo, appuntamento elettorale che l’abolizione del Senato elettivo non è un abbattimento dei costi (inutili) della politica ma una prova tecnica di autoritarismo?

E poi la legge elettorale, che Renzi menziona come altra priorità, visto che siam ancora sprovvisti di regole sensate per andare al voto, con un Parlamento espropriato e un sistema elettorale scritto di loro pugno da quattro giudici della Corte Costituzionale. D’altro canto pare di capire che Renzi non sia ansioso di anticipare il ritorno alle urne. Avendo ribadito con forza la priorità delle riforme istituzionali, già delineate, Renzi si è già spostato sulle altre, e in particolare sul lavoro. Forse avrebbe preferito non impelagarsi – anche lui – nell’impossibile riforma dell’articolo 18. Prova quindi a spostare l’attenzione sul contratto unico a tutele crescenti e sulla universalizzazione di ammortizzatori uguali e semplici per tutti, cioè sulla parte rassicurante della legge delega piuttosto che sulla libertà di licenziamento (con il solo indennizzo) per tre anni (come vorrebbe Damiano) oppure per sempre (come vorrebbe il Nuovo centrodestra. Su questo Renzi alza la voce dicendosi pronto anche ad agire per decreto, se ci saranno resistenze.

Non sarà facile per Renzi realizzare tutto. Anche perché in Europa le cose non sono cambiate granché. La nuova Commissione non è così compassionevole come si sperava. Basta vedere come il socialismo solidale del povero Moscovici sia stato anestetizzato alla radice da due vicepresidenti iper-conservatori con deleghe pesantissime (euro, lavoro e investimenti), come Katainen e Dombrovskis, che definiamo falchi del rigore per essere lievi. Né pare un buon segno il fatto che i nuovi commissari siano tetti ex ministri o ex primi ministri, nella misura in cui l’Europa continua in questo modo a sposare in pieno un approccio intergovernativo, basato cioè sugli interessi e la forza degli Stati nazionali (con molti vantaggi per la Germania), piuttosto che su una visione sovranazionale tesa a difendere gli interessi di tutti. Ci vorrà uno sforzo ciclopico per portare a casa buoni risultati, per di più davanti a un Parlamento che si intorcina sulle nomine dei giudici costituzionali, tra candidature di un vecchio impero decadente. Il discorso di ieri, però, con anche l’azzardo di non avere paura di perdere le elezioni, se si traduce in obiettivi operativi chiari, se finalmente porta a percorsi intelligibili di attuazione, indica una direzione giusta.

La disfatta degli economisti

(Paul Krugman, Repubblica) La scorsa settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da un gruppo di studenti che invitava, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita. A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. L’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni – o meglio decenni – portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso, per faziosità o per amor proprio, hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta a più livelli – e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica – la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi. In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione. I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff di Harvard, non certo un radicale. Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.

Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene? Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse, che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare. La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica oggi è convinta che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono – ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta.

Citazione

Una persona perfettamente nota ai suoi cari all’ora di pranzo… (Paolo Piva)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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