Se la riforma elettorale muove dalla legge Mattarella

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Ci sono due possibili modi di impostare la riforma della legge elettorale per il rinnovo della Camera dei deputati. Il primo, tecnicamente più facile, è quello di partire dalla legge elettorale vigente (legge 21 dicembre 2005, n. 270), così come emendata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale.
Il secondo modo è quello di disporre l’abrogazione della predetta legge n. 270/2005 e di assumere come base la precedente legge 4 agosto 1993, n. 277 (più nota quando associata al nome dell’ex Ministro Sergio Mattarella), introducendo in questa gli opportuni correttivi.

Per quanto mi riguarda, non disdegno la prima via, dal momento che non ho alcun pregiudizio ideologico nei confronti del sistema proporzionale. So, inoltre, che sono note e sperimentate soluzioni efficaci per contrastare il fenomeno della frammentazione della rappresentanza. Si tratta di manovrare con equilibrio due varianti: la dimensione delle circoscrizioni e l’introduzione di soglie di sbarramento. Per quanto riguarda la fissazione di soglie, queste, per risultare efficaci e per essere coerenti con il principio costituzionale secondo cui tutti i voti hanno lo stesso peso (sono uguali), devono rispondere ad un requisito: vanno applicate nello stesso modo a tutti i soggetti che partecipano alla campagna elettorale, senza distinguere fra liste coalizzate e liste che si presentano da sole. Se le circoscrizioni sono ampie, ossia tali da includere alte cifre di popolazione residente e quindi con molti seggi da ripartire, le soglie di sbarramento, invece di essere riferite al totale dei voti validi espressi in ambito nazionale, possono essere introdotte nella stessa dimensione circoscrizionale, in modo da dare comunque rappresentanza a forze politiche che hanno un consistente radicamento territoriale e non sono uniformemente presenti nel territorio nazionale. Ragionando in linea generale e tenuto conto dell’esperienza storica, si può concludere che il sistema proporzionale, in situazioni di difficoltà politica e di forti tensioni, è quello che finisce per garantire tutte le forze politiche. Le quali, non fidandosi l’una delle soluzioni proposte dall’altra, con una legge proporzionale possono almeno fare affidamento su una corrispondenza fedele tra voti ottenuti e rappresentanza parlamentare. Corrispondenza che viene smarrita quanto più si corregge la proporzionalità con meccanismi maggioritari. Il problema della prima via è appunto quello che si possa cadere nelle mani di apprendisti stregoni, i quali, con il pretesto di assicurare la governabilità, potrebbero disegnare un altro mostriciattolo giuridico e politico, tale da essere parente stretto del modello Calderoli.

La migliore legge elettorale è la più semplice, quella il cui funzionamento può essere compreso da tutti i cittadini.
Mi sembra interessante, quindi, riflettere seriamente sul secondo percorso possibile.
Come è noto, la legge Mattarella prevedeva che 475 deputati, ossia il 75 % dei deputati nella attuale composizione della Camera, venissero eletti in altrettanti collegi uninominali con sistema maggioritario. Ciò significa che in ogni collegio risulta eletto il candidato che ha riportato il maggior numero di voti. Gli anglosassoni definiscono questo criterio: il primo prende tutto (First past the post).
Commentatori frettolosi sostengono che, anche con questo sistema, le tre forze politiche che sono risultate di peso elettorale quasi equivalente nelle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, ossia coalizione di Centrosinistra, coalizione di Centrodestra, Movimento Cinque Stelle, si dividerebbero in tre fette pure i collegi uninominali.
Questo è un errore grossolano. Infatti, se uno dei tre competitori fosse capace di raccogliere più voti rispetto a ciascuno degli altri due e questa prevalenza si manifestasse uniforme nel territorio nazionale, potrebbe conquistare quasi tutti i 475 collegi. Gli altri due competitori si ritroverebbero con il classico pugno di mosche in mano, anche quando il vincitore li sopravanzasse di poche centinaia di voti in ogni singolo collegio. Basta un solo voto in più: il primo prende tutto, come prima si scriveva. Tutto dipende dalla distribuzione territoriale del consenso, oltre che dalla quantità di consenso.
Se si ritorna all’impianto della legge Mattarella, l’unica cosa sicura è che sarebbero ripristinati i 475 collegi uninominali già sperimentati nelle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001. Ogni modifica del numero dei collegi comporterebbe la necessità di una nuova delimitazione territoriale ed i tempi si allungherebbero considerevolmente. Senza complicarsi inutilmente la vita, basta scrivere che resta invariata la delimitazione territoriale dei collegi istituiti in attuazione della legge n. 277/1993.

La legge Mattarella prevedeva un unico turno di votazioni. Si potrebbe innovare disponendo che le elezioni si svolgano in due turni. Questa soluzione presenterebbe dei vantaggi in linea teorica, sui quali non ritorniamo perché altre volte ce ne siamo occupati. Ci sono, tuttavia, due ostacoli. Il primo è l’ostilità da parte di quelle forze politiche che ritengono che un secondo turno elettorale le danneggerebbe: il secondo turno conviene soltanto alle forze politiche potenzialmente capaci di attrarre elettori che al primo turno hanno votato per candidati espressi da piccoli partiti, o si sono astenuti. Il secondo ostacolo, ancora più serio, è la disaffezione popolare nei confronti del voto. E’ già un problema convincere le persone ad andare a votare una volta; un secondo turno ravvicinato farebbe crescere l’astensionismo. Come comprova l’esperienza del voto nelle elezioni amministrative. Di conseguenza, quanti teorizzano che il turno di ballottaggio darebbe piena legittimazione ai vincitori delle elezioni, non considerano che raccogliere la maggioranza assoluta di un trenta per cento degli aventi diritto al voto non dà poi una legittimazione democratica così forte. Non va dimenticato, infine, il profilo economico della questione: prevedere due turni significa, in pratica, raddoppiare i costi delle elezioni.
La parte più discutibile e discussa della legge Mattarella riguarda l’attribuzione dei rimanenti seggi. Questi oggi non sono più 155, ma centoquarantatre, perché dodici seggi vanno attribuiti nella circoscrizione Estero, secondo quanto disposto dall’articolo 56, secondo comma, della Costituzione.
Le forze politiche stanno valutando se utilizzare questa quota di 143 seggi per introdurre un premio di governabilità. La cautela è d’obbligo, perché si tratterebbe di introdurre un premio in seggi in un impianto normativo che già prevede il sistema maggioritario secco per l’attribuzione di 475 seggi nei collegi uninominali.

Per quanto mi riguarda, subordinerei la possibilità di attribuire il premio alla coalizione più votata al sussistere di due condizioni (entrambe necessarie). L’Ufficio centrale nazionale dovrebbe verificare se la lista, o coalizione di liste, più votata:
— a) abbia ottenuto una cifra elettorale nazionale non inferiore al trentacinque per cento del totale dei voti validi espressi nel voto per le liste circoscrizionali, esclusa la circoscrizione Estero;
— b) possa contare su almeno duecentoventotto deputati direttamente eletti nei collegi uninominali istituiti nel territorio nazionale, contraddistinti dal medesimo contrassegno collegato (Nota: 228 deputati sono il 48 % del totale dei deputati eletti nei collegi uninominali; come già detto, ciò non significa che si richieda il 48 per cento di consenso medio sul piano nazionale, perché, per la logica del sistema maggioritario, per raccogliere questo risultato è sufficiente una buona distribuzione territoriale del voto).
Le due condizioni sub a) e sub b) si spiegano perché, nell’impianto della legge Mattarella, ogni elettore dispone di due voti, da esprimere su distinte schede. Un voto per la scelta di un candidato, fra quelli il cui cognome e nome sono riportati a caratteri di stampa nella scheda di votazione per il collegio uninominale; l’altro voto per la scelta di una lista, fra quelle concorrenti nella circoscrizione. La legge Mattarella non prevedeva la possibilità di esprimere preferenze nel voto alle liste circoscrizionali. La mia opinione è di mantenere la stessa regola: ciò non contrasterebbe con la recente sentenza della Corte Costituzionale perché in questo caso il radicamento territoriale della rappresentanza sarebbe già ampiamente garantito dall’elezione di 475 deputati in altrettanti collegi uninominali. Prevedere il voto di preferenza in circoscrizioni ampie significherebbe contraddire l’esigenza di contenere le spese per la campagna elettorale, esigenza che si lega strettamente con quella di moralizzare la vita pubblica.

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