L’Italia va in ferie tra la chimera della ripresa e l’impasse politica di PD e PDL

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ENRICO CISNETTO

L’Italia si accinge al suo quarto Ferragosto in recessione, degli ultimi sei anni, con scarsa convinzione che chi parla di ripresa economica ormai prossima abbia ragione e con la preoccupazione, mista a rassegnazione, che la politica non abbia ancora finito di dare il peggio di sé. TerzaRepubblica ha evitato le ferie – salteremo solo l’uscita di sabato 17, ma il 24 agosto saremo ancora qui – proprio perché giudica la situazione a dir poco drammaticamente complicata. Lo schema proposto dal governo è: la ripresa è portata di mano, lasciateci lavorare e vedrete che finalmente usciamo dalla crisi. Ergo, la stabilità come valore assoluto. Lo scenario disegnato dal Pd – che si sente più proprietario dell’esecutivo del Pdl ma sconta il ribollire di una base che non digerisce la “strana maggioranza” con Berlusconi – è banale: noi siamo leali al governo, se poi il Pdl per difendere il suo leader condannato pretende cose impossibili, si assumerà la responsabilità d far cadere Letta. Quello del Pdl è reso più contorto dal travaglio sull’incerta fine che tocca al Cavaliere: noi vogliamo che siano realizzate le scelte che abbiamo chiesto fin dall’inizio (abolizione totale dell’Imu) e chiediamo che sia in qualche assicurata l’agibilità politica di Berlusconi; altrimenti, elezioni subito.

Balle. In tutti e tre i casi, balle. È una frottola che la ripresa sia dietro l’angolo. Per adesso ci sono solo segnali di rallentamento della recessione, non di un’inversione di tendenza vera e propria. La ripresa economica non c’è ancora – né quella reale, visto che per ora i dati sono parziali e spesso contraddittori, né quella “percepita”, considerato che la crisi è entrata nella testa e nella quotidianità degli italiani ben più di quanto essa valga in termini economici – mentre in compenso della ripresa politica e istituzionale di un paese che ha toccato il fondo, non si vede neppure l’ombra. E le due cose, purtroppo, rischiano ancora una volta di incrociarsi pericolosamente. Perché mentre il governo brucia tempo per sopravvivere, di tempo per fare le grandi e piccole riforme strutturali da cui dipende unicamente la nostra capacità, ne rimane sempre meno. Tanto più se la partita l’esecutivo continua a giocarla, come ha fatto fin dal primo giorno, usando lo schema della mediazione preventiva con Pd e Pdl.

Una modalità che finora gli ha consentito di fare poco, e che viste le condizioni dei rapporti dentro e tra i due partiti, d’ora in poi gli legherà le mani totalmente. Come dimostra, nelle ultime ore, il “caso Imu”, per cui le ragionevoli proposte (dicesi proposte, non decisioni unilaterali) del ministro Saccomanni sono diventate l’occasione per aprire fronti di guerra. Come abbiamo già detto nelle settimane scorse, in questa situazione il governo appare un parafulmine su cui si scaricano le tensioni politiche e le contraddizioni interne ai due partiti di maggioranza. Un soggetto passivo, incapace e impossibilitato a svolgere un ruolo dinamico nella vicenda politica, e dunque tantomeno capace di cogliere le flebili opportunità di miglioramento dell’economia che la congiuntura offre. È dunque malposto il tema della stabilità come priorità suprema, perché non può essere fine a se stessa: la priorità vera è la capacità di esprimere decisioni di governo forti – le uniche che tra l’altro giustificano una grande coalizione – e la stabilità è precondizione buona se supporta le grandi riforme, altrimenti è un feticcio inutile. Un esempio? Dal vicolo cieco dell’Imu non si esce con qualche bizantina mediazione – anche perché l’aut-aut del Pdl, anzi di Berlusconi in persona, non lascia spazio alcuno – ma con una proposta di riforma globale del fisco che rimoduli l’intero (ridondante) impianto dei tributi con l’obiettivo di abbassare significativamente pressione fiscale, naturalmente accompagnato da un taglio di spesa pubblica corrente per un ammontare equivalente.

Ma sono balle anche le versioni edulcorate della situazione fornite da Pd e Pdl. I Democratici sono vittime di uno scontro interno senza precedenti – “un partito di lotta, di governo, e di Renzi”, ha significativamente titolato Europa – che cercano sia di mascherare che di condizionare usando la condanna di Berlusconi. In realtà, tutti, Renzi compreso, rischiano di coltivare la letale convinzione di aver già in tasca la vittoria alle prossime elezioni (non importa quando saranno) per il solo fatto che la magistratura ha impallinato – e probabilmente impallinerà ancora, prossimamente – l’avversario di sempre. Pia e stupida (vista la reiterazione) illusione: la sinistra è e resta minoritaria nel Paese. Dal canto loro, i pidiellini – anzi, i forzaitalioti, visto che qui i partiti (si fa per dire) si chiudono e si aprono a seconda di come garba al padrone – sono divisi (molto più di quanto appaia) tra coloro che pensano che il centrodestra senza Berlusconi (padre o figlia che sia) non possa avere un futuro, e chi invece pensa che la storia politica del Cavaliere sia finita (anche prima della condanna) ma fatica a darsi il coraggio di andare oltre e sotto sotto spera che sia la forza delle cose a risolvere il problema. Voi capite che la somma algebrica di queste due realtà è un esplosivo di mix di incertezza piazzato sotto le natiche del governo (già passivo di suo). Altro che stabilità come priorità assoluta, altro che cogliere la ripresa.

Dunque? Tutto, ancora una volta, è nelle mani di Giorgio Napolitano. È il Capo dello Stato che deve dire se e come sia eventualmente possibile rispondere alla richiesta di Berlusconi di non essere messo fuori dal gioco politico. È sempre lui che può usare l’arma delle sue dimissioni o per evitare la caduta del governo o per posporre le elezioni all’anno prossimo (prima bisognerebbe votare il suo successore e poi sciogliere le Camere, con il che la tanto evocata “finestra d’autunno” per andare alle urne verrebbe sbarrata). I tempi sono stretti: la giunta per le elezioni del Senato tornerà a riunirsi il 9 di settembre per pronunciarsi sulla decadenza del senatore Berlusconi, mentre il 16 ottobre scatterà la detenzione (nelle forme che vedremo). Gli spazi di decisione e azione a disposizione del Presidente sono stretti, angusti. Non è immaginabile fare oggi quello che non si è fatto ieri – patteggiare il salvacondotto con la sua uscita di scena – e d’altra parte la stessa possibilità che Berlusconi continui ad essere leader politico (fuori del Parlamento, stile Grillo) è inversamente proporzionale a una soluzione di compromesso, perché la grazia (o simile) gli restituirebbe la libertà personale ma gli toglierebbe quella politica.

La verità è che c’è una sola soluzione all’empasse in cui siamo: il superamento del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo – non dobbiamo dimenticarci che “centro-destra” e “centro-sinistra” sono concetti berlusconiani, e che senza di lui entrambi, e quindi il bipolarismo fin qui praticato, non vanno da nessuna parte – attraverso un’organica riforma costituzionale da realizzarsi mediante la convocazione di un’Assemblea Costituente. Una scelta che nessun politico oggi sulla scena – Renzi, il nuovo, compreso – ha l’intelligenza e il coraggio di fare. Ma Napolitano sì. Buon Ferragosto.

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