Armistizio o pace?

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di CARLO ALTOMONTE

L’unione economica non può prescindere dalla solidarietà fiscale. C’e’ da stabilire come, se con un nuovo ruolo della Bce o gli Eurobond. Ma ricostruire la casa europea è necessario per porre fine alla guerra tra governi e mercati.

Spread, Efsf, Ltro… parole che oggi risuonano tra gli operatori finanziari, versione moderna di quegli urli di guerra che riecheggiavano sui campi di battaglia del Vecchio Continente. Qui si confrontano ormai da quasi due anni (dalla prima campagna di Grecia nel maggio 2010) da un lato i grandi fondi istituzionali di investimento, motore della liquidità mondiale, scesi in campo per proteggersi dal rischio di vedere i loro risparmi annegare nei debiti europei (meglio, nella scarsa capacità di gestirli mostrata dai governi); e dall’altro gli stessi governi dell’area euro, orgogliosi del loro modello sociale e desiderosi di non perdere, insieme a questo, le prossime elezioni. Tra i contendenti, una corte di mercanti di varia natura (oggi si chiamano hedge funds), pronti a fare affari con l’una o l’altra parte. In mezzo, come sempre, la gente comune, che non capisce davvero cosa sta succedendo e perché.

E dopo violente battaglie e alterne fortune, con gli indici di borsa in impetuosa avanzata o in rapida ritirata, anche questa guerra sta per finire, senza grandi vincitori né vinti.
Gli investitori istituzionali ritroveranno fiducia sui mercati europei, incoraggiati da governi che nell’emergenza avranno imparato a organizzare le loro risorse: la Bce che presta liquidità, il patto sull’austerità fiscale, il nuovo meccanismo europeo di salvaguardia (Esm).
Quando anche l’ultimo di questi strumenti sarà attivo, le ostilità con ogni probabilità cesseranno.

Sarà una pace duratura? La storia ci insegna che, per capirlo, bisogna guardare alla qualità della ricostruzione, comprendendo la natura della crisi che ha portato al conflitto. Ossia riconoscere che il problema primigenio dell’Europa non è di natura fiscale, ma di bilancia dei pagamenti. La Spagna e l’Irlanda non hanno mai mostrato squilibri di finanza pubblica: anzi, contrariamente a Francia e Germania, non hanno mai violato le regole di Maastricht. Ma tutti i paesi interessati dalla crisi, Italia compresa, registrano un importante deficit di competitività (la loro produttività cresce meno) nei confronti del Nord Europa. Questo, in presenza di disponibilità di credito, genera fatalmente un deficit strutturale di partite correnti e dunque l’indebitamento (anche privato) di questi paesi. Ma il deficit prima o poi va risanato, pena il fallimento. E poiché è improbabile che nel giro di poco tempo Grecia o Portogallo diventino più competitivi della Germania, tale riequilibrio implica o una svalutazione del tasso di cambio reale, o qualche forma di trasferimento tra paesi in surplus e paesi in disavanzo. Ma la prima soluzione è difficilmente praticabile in un’unione monetaria (il tasso di cambio nominale è fisso), e comporta insostenibili costi sociali (la svalutazione si deve fare attraverso una riduzione percentuale a doppia cifra di prezzi e salari, come accade in Grecia).

Dunque, l’unione economica non può prescindere da forme di solidarietà fiscale. Si valuterà poi se tale solidarietà si realizzerà con un diverso ruolo della Bce, con interventi diretti a sostegno del debito pubblico; o attraverso un mercato interbancario integrato che presta sulla base di garanzie mutue e condivise erogate dai governi; o in forma ancora più esplicita e trasparente, come è auspicabile, attraverso modalità condivise di debito pubblico per tutta l’area euro (Eurobond); o, infine, con un sempre maggiore ruolo del meccanismo di redistribuzione all’interno del budget federale, come è accaduto negli Usa alla fine della Grande Depressione.
Senza questa ristrutturazione della casa europea che ponga le basi di una pace duratura, tra governi e mercati possiamo sperare solo in un lungo armistizio.

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