Il liberalismo in Olanda e l’integrazione dei migranti

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di DOMENICO BILOTTI

La legislazione olandese costituisce un laboratorio particolarmente interessante per i fautori di un sistema di governo del conflitto ispirato a principi liberal-democratici. Nei Paesi Bassi ha dominato, in politica interna, un approccio marcatamente antiproibizionista, in tema di droghe, prostituzione, terapie del dolore, persino sul terreno più scivoloso dell’integrazione sociale e razziale. Il giocattolo aveva cominciato a frantumarsi, nelle mani dell’alternanza liberal-conservatrice e social-democratica, già all’inizio del terzo Millennio. Le sperequazioni economiche creavano una conflittualità superiore alla media del Paese, il pluralismo religioso assumeva, in fin dei conti, una rappresentazione prevalente di scontro tra una tenace minoranza islamica e una maggioranza sostanzialmente secolare, ma figlia di una mentalità imbevuta di cristianesimo e teoria politica illuministica e post-illuministica, sin dalle sue fondamenta del vivere sociale. Non si profilava un dualismo tra Chiesa Cattolica e intellettualità laica, né tra una Chiesa di maggioranza e più tendenze confessionali minoritarie. All’interno di conflitti di questo tipo, valga ancora l’osservazione di Gustavo Bontadini, che associa a Chiese largamente maggioritarie la pretesa di Verità e a gruppi religiosi intrinsecamente minoritari e politicamente minacciati un (vago, ma) drammatico anelito di libertà.

La società olandese non costituisce, del resto, un’applicazione concreta di ideologie politiche radicalmente libertarie: non si tratta di un Paese ad “high energy democracy” -la definizione stavolta è di Unger; semmai, è stata una democrazia con l’elevata incidenza di un ceto acculturato, versato nella burocrazia, nelle attività creditizie, e fiducioso nei confronti della tecnica. Una democrazia “tranquilla”, più che una democrazia “energica”, e, cioè, fondata sul continuo ricorso a pratiche assembleari. Una delle voci più schiette nel descrivere la società olandese è stata quella di Paul Scheffer, che ha parlato di “Dramma Multiculturale”, di conclusione infelice di politiche prima inclusive, giacché rivolte a quote di migranti più modeste e maggiormente desiderose d’esser parte integrante del Paese di residenza e dei suoi costumi, parte integrante e parte integrata. Il discorso non è nuovo nel più vasto dibattito sul multiculturalismo: anche Ignatieff, in Canada, si poneva gli stessi problemi, osservando come istituzioni giuridiche improntate al multiculturalismo avevano funzionato meglio col ravvicinamento di gruppi sostanzialmente omogenei (anglofoni e francofoni) e in un contesto socio-economico di maggior livellamento delle opportunità e, in sintesi, dell’esercizio dei diritti. Ian Buruma, in Assassinio a Amsterdam. I limiti della tolleranza e il caso Theo Van Gogh, ha scelto un approccio di studio complesso e articolato, dove l’avanzata di movimenti nazionalistici, il radicarsi di forme di islamismo intollerante e il generale detrimento qualitativo dei consumi (anche culturali e di intrattenimento) non sono tre fenomeni realmente distinguibili, piccoli temi per monografie e trattatelli, ma pensosi capitoli di uno stesso problema. Buruma ha realizzato, polemiche a parte, un lavoro interessante e nient’affatto datato, anche a cinque anni di distanza -tempo quasi biblico per il conflitto sociale, al tempo del mondo globale. Ha tenuto in gran conto, per esempio, le opinioni di chi, con argomenti un po’ più sostanziosi della semplice propaganda politica, pone dei limiti alla reale capacità di integrazione del mondo arabo, riuscendo a criticarle, ove “viziate” da errori prospettici.

A Jolande Withuis, la storica che ha giustamente osservato come l’Islamismo, quale spettro di paure sociali, abbia ricevuto forme di controllo assai più blande del Comunismo, negli anni Cinquanta e Sessanta, si può facilmente opporre che le pratiche gratuitamente repressive sono in sé sbagliate e, spesso, esasperano le posizioni di partenza. Non può darsi l’adagio, “chi ha represso una volta, dovrà reprimere per sempre”. È forse vero il contrario, a reprimere una volta c’è la tentazione inefficace di continuare a farlo. E al giurista Afshin Ellian può rispondersi, come Buruma sembra fare correttamente, che la difesa dei valori illuministici non può restare circoscritta nella difesa pedissequa delle istituzioni giuridiche che quei valori hanno contribuito a modellare: l’approccio critico-illuministico insegna anche la duttilità delle forme politiche, la necessità di rinvenire strumentazioni pratiche e non dogmatiche.

Buruma si dimostra sagace osservatore degli spazi urbani: alla “metropoli”, come concetto geofilosofico plasmato a partire dalle riflessioni di Derrida (e, in qualche modo, ripreso dall’italiano Negri), contrappone l’insorgenza di quartieri ghetto, che sanno sempre di più di “città paraboliche”, rocche all’interno della metropoli, caseggiati di migranti, proiettati, con telefoni, telecomunicazioni, antenne e televisioni, non sul presente del luogo e dello Stato ove si vive, ma sull’oltre della patria che hanno lasciato. Un potenziale esplosivo di esclusione sociale e radicalismo da rancore deviato, nuova versione del sobborgo operaio della rivoluzione industriale.

Tener presente questa mappa di problemi, al di là della bella intuizione “descrittiva”, ha una dimensione tutta normativa: promozione di dialogo, regolamentazione di condotte, esercizio di diritti. In Italia, quando lo spettro xenofobo si incarna in gitani e islamici (e ancor prima: cinesi o marocchini), queste tematiche ritornano d’un colpo: il rivaleggiare con (e il rivalersi del)la miseria dell’altro. Si tratta di torsioni autoritarie e populistiche, però, non di soluzioni giuridicamente avanzate ed economicamente giovevoli.

*aliberalpost.splinder.com

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