Libertà economica

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L’Italia ha una ricaduta, ma la cura c’è

di Adriano Gianturco Gulisano

Ogni anno l’Index of Economic Freedom accende un faro sul grado di libertà per produrre reddito e opportunità di sviluppo. Problemi che vengono certo da lontano, portano l’Italia in picchiata dal 64° al 76° posto nel mondo, peggiorando sia in termini relativi che assoluti.

Il livello di libertà economica è al 61,4%, oltre un punto percentuale in meno rispetto all’anno scorso (62,5). La performance è poi più grave se si considera che la libertà economica ha fatto progressi nel mondo e in Europa. A livello globale, ben 83 Paesi hanno fatto passi avanti rispetto allo scorso anno. In un Europa libera al 66,3%, scendiamo dalla 29° posizione alla 32° (su 43 Paesi).

L’analisi copre 183 Paesi e censisce il grado di apertura rispetto a dieci indicatori, che descrivono la libertà con cui gli operatori economi ci possono muoversi. Nonostante un lieve miglioramento in quattro di essi – libertà d’impresa, libertà dal fisco, libertà dalla corruzione e libertà monetaria – l’Italia registra decisi arretramenti in due settori chiave. La libertà dallo Stato viene stimata solo al 24,7%, contro il 29,4 dell’anno scorso, a causa dell’aumento della spesa pubblica. Sono recenti infatti i controversi dati delle entrate tributarie che aumentano mentre l’economia ristagna. Per quel che riguarda la libertà del lavoro, il giudizio pesantissimo – dal 74,5 del 2008 al 61,3% del 2009 – riflette principalmente le rigidità che si sono aggiunte con l’azione del governo Prodi e la finanziaria 2007. A pesare sul bel Paese sono la scarsa tutela dei diritti di proprietà;le lente vertenze giudiziarie che portano numerose aziende a preferire un accomodamento extra-giudiziario; l’alta corruzione incentivata da un aggrovigliato sistema giuridico con troppe norme e spesso contraddittorie tra loro;la rigidità delle normative sul lavoro che ostacolano l’occupazione e la crescita della produttività, costi non salariali di un lavoratore dipendente decisamente elevati. Questioni complesse ma su cui Sacconi potrà fare molto.

Ottenere una licenza commerciale richiede un numero di procedure inferiore alle 18 della media mondiale ma paradossalmente un periodo di tempo superiore di ben 225 giorni: ecco uno spunto per Brunetta. A trascinarci decisamente in basso è la spesa pubblica complessiva, comprendendo i consumi e le attività di redistribuzione del reddito (pensioni, sovvenzioni, ecc.) risulta estremamente elevata l’ultimo anno ha raggiunto il livello del 50,1% del Pil. Inoltre lo Stato controlla ancora alcune imprese, principalmente nel settore dei trasporti e dell’energia e il governo può, di fatto, porre il veto all’acquisizione di aziende italiane che coinvolgano investitori stranieri, come ricorda il caso Autostrade-Abertis. A livello globale, le ex colonie britanniche in Asia continuano a capeggiare la classifica. Da 15 anni Hong Kong ha il benchmark più alto, Singapore è saldamente seconda e l’Australia terza. I Paesi più liberi hanno il doppio della media di reddito pro capite del secondo quintile di nazioni, e più di cinque volte del quinto quintile. Le economie più aperte hanno anche tassi più bassi di disoccupazione e meno inflazione e questo per ogni quintile di casi studiati. Dati empirici, libertà e benessere.

Insomma l’Indice, elaborato dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, in collaborazione con un pool di think tank tra cui, per l’Italia, l’Istituto Bruno Leoni, non ci dice che siamo messi peggio dell’Albania, del Belize e del Sud Africa, ci ricorda però che teniamo in vita più barriere alla libera espressione della creatività imprenditoriale, e se è vero come è vero che un basso grado di libertà economica inibisce la crescita, ci preannuncia come staremo domani.

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